“La battaglia per la vita non sarà vinta dai biologi, dai filosofi, ma dalla gente semplice che ama i bambini e che li accoglie insieme alle loro madri”. Così si esprimeva il compianto Carlo Casini (1935-2020), magistrato, uomo politico e strenuo difensore della vita nascente negli anni dell’approvazione della legge sull’aborto e del successivo referendum per la sua abolizione (che non passò) e a lungo presidente del Movimento per la Vita. Le sue parole riecheggiano in un passaggio del Messaggio della CEI per la 47esima Giornata nazionale per la vita, che si celebra oggi, prima domenica di febbraio, sul tema Trasmettere la vita, speranza per il mondo.
I vescovi italiani, dopo essersi chiesti quale futuro possa esserci “per una società in cui nascono sempre meno bambini” e aver ricordato che senza “la trasmissione della vita […] nessuna forma di organizzazione sociale o comunitaria può avere un domani”, invitano a tenere conto di un positivo atteggiamento, ancora diffuso, di accoglienza per i più piccoli, perché in fondo “tutti condividiamo la gioia serena che i bambini infondono nel cuore e il senso di ottimismo dinanzi all’energia delle nuove generazioni”. Per questo è importante incoraggiare “le giovani coppie a non aver timore di mettere al mondo figli”. Impresa non facile, anche perché dietro il “costante calo delle nascite” si registra anche “un vistoso calo del desiderio di paternità e maternità”. Si tratta di non allontanarsi da “uno sguardo di speranza, capace di sostenere la difesa della vita”, abbandono che “conduce inevitabilmente a uno scenario di morte”.
Scenario dovuto a logiche ispirate “all’utilità immediata, alla difesa di interessi di parte o all’imposizione della legge del più forte”, che purtroppo è già una realtà da tempo e che anzi tende ad allargarsi, se è vero che ormai a livello universale l’interruzione volontaria della gravidanza non è più considerata una “dolorosa necessità” a cui ricorrere in casi ben circostanziati, ma un “diritto fondamentale”. Come dimostra la recente raccolta di un milione di firme in 15 Stati dell’Unione Europea per ottenere che “tutti i cittadini dell’UE, indipendentemente dalla nazionalità o dalla residenza, abbiano accesso a servizi di aborto sicuri e legali”. Peraltro le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità affermano che le donne non devono incontrare ulteriori ostacoli alle richieste di aborto, mentre la Francia di Macron si è distinta per essere il primo Paese al mondo a introdurre nella Costituzione il diritto di abortire. Ma in questo desolato panorama, dove tra i “diritti fondamentali delle donne” rientra anche la possibilità di sopprimere legalmente la vita che portano in grembo, chi dà voce ai bambini concepiti e non nati, i più deboli in assoluto? In altri termini, tra tanti diritti sbandierati a ogni piè sospinto in una società che si proclama inclusiva, esiste ancora il diritto basilare che fonda tutti gli altri, cioè il “diritto di nascere”? Mette in primo piano questo diritto imprescindibile, ma (ipocritamente) misconosciuto, un libro coraggioso e ben documentato, Diritto di nascere. La legge 194: storia e prospettive (Ares, 2025).
Il testo esce all’avvicinarsi del cinquantenario dell’entrata in vigore in Italia della legge sull’aborto, la 194 del 1978, e ripercorre, fonti e testimonianze alla mano, la temperie in cui essa fu emanata, in un clima violento e di intimidazione che è bene non dimenticare, e il dibattito che l’ha accompagnata fino ai nostri giorni. Le autrici sono Marina Casini, giurista e docente di bioetica e biodiritto alla facoltà di Medicina dell’Università Cattolica, che ha raccolto l’eredità del padre ed è attualmente alla guida del Movimento per la Vita, e Chiara Mantovani, medico, pure lei specialista in bioetica e impegnata nell’accoglienza alla vita. Due donne che nella quotidiana realtà professionale promuovono le ragioni per il riconoscimento della dignità di tutti, dal concepimento fino alla morte naturale, e che in questo saggio illustrano con chiarezza il quadro giuridico e culturale-ideologico in cui è maturata la disciplina della vita nascente nel nostro Paese. La prefazione è dello storico Marco Invernizzi, che visse in prima persona le vicende travagliate che portarono all’approvazione della 194. Il triennio dall’entrata in vigore della legge fino alla sua conferma nel 1981, con la bocciatura del referendum che ne chiedeva in gran parte l’abrogazione, conservando solo la possibilità dell’aborto terapeutico, quando la madre è in pericolo di vita o il nascituro è affetto da gravi patologie o malformazioni, confermò che “l’Italia era diventato un Paese di missione, non essendo più una nazione che si riconosceva, in qualche modo, nei valori cristiani”.
Per Invernizzi, la legge che ha reso legale l’aborto volontario “è una delle più divisive che ci siano state nella storia dell’Italia moderna”, e nello stesso tempo “segnò uno dei punti più alti della rivoluzione antropologica che esplose nel 1968”, modificando la mentalità corrente a tal punto che, “ancor oggi, a tanti decenni di distanza, è incredibile come ancora susciti delle reazioni spropositate ogni volta che qualcuno la critica, o accenna a possibili miglioramenti o revisioni”. Insomma, “rappresenta una tappa fondamentale del processo di distacco, meglio di strappo, dalle radici culturali della nazione italiana”. Conclude lo storico: “Quanto aveva lasciato intendere il referendum sul divorzio nel 1974, che confermò la legge del 1970, divenne evidente nel 1981: l’Italia non era più un Paese che facesse riferimento all’etica cristiana e neppure a una morale naturale, anche se di cristiani ne rimanevano parecchi”.
Così, mentre cresceva la cosiddetta “cultura dei diritti”, che sarebbe poi divenuta egemone e prevaricatrice e che “pretendeva la trasformazione in diritto di qualunque desiderio dell’uomo, spesso lontano da ogni ragionevolezza”, con la legge 194 “si negava il primo fondamentale diritto, quello di nascere”. E venne spostata “radicalmente l’attenzione dal diritto alla vita del concepito a quello della donna, quasi che quest’ultima potesse fare quel che voleva di un’altra vita che non aveva chiesto di venire al mondo”.
Il volume non si limita a un’attenta e ben articolata ricostruzione storica e a un’analisi accurata della 194, ma traccia in modo concreto ed efficace nuove linee operative, avendo come fine una ritrovata affermazione della cultura della vita e una piena valorizzazione della donna e della maternità. L’impegno per tutelare la vita nascente non può più essere una battaglia solo dei cattolici, ma deve diventare una battaglia laica, di tutti, la bandiera di un nuovo umanesimo in nome della solidarietà e dell’accoglienza. Tra le proposte, ribadire con decisione (è un’evidenza scientifica!) che “l’inizio della vita è il concepimento” e che “lo Stato ha il dovere di tutelare il diritto a nascere pur rinunciando alla sanzione penale”, come pure che “i compiti dei consultori riguardano anche la tutela dei bambini non ancora nati, come indica l’art. 2; che il colloquio con la donna deve abbracciare percorsi di nascita come indica l’art. 5” e che si devono osservare “nuove modalità di tutela della vita nascente e della maternità durante la gravidanza”. Un invito a cambiare punto di vista, rinunciando a una rigida posizione ideologica, che renderebbe pure “più limpida per tutti la motivazione dell’obiezione di coscienza”, oggi pesantemente sotto attacco. In conclusione, un libro quanto mai opportuno sulla storia della 194, che ne ricorda i tratti essenziali e il clima dell’epoca in cui nacque, ma offre anche una prospettiva diversa, in una logica non di contrapposizione, ma di ritrovata intesa per affermare il “diritto di nascere”.
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