Cosa vedeva Leonardo Del Vecchio che gli altri non hanno visto, o non volevano o non osavano vedere? Se lo chiede Tommaso Ebhardt, l’autore della biografia dell’imprenditore – viene quasi da scrivere dell’imperatore – milanese d’origine e agordino d’adozione (Leonardo Del Vecchio, Sperling&Kupfer, 2022). Per inquadrare il tema iniziamo a notare che vedere non è un semplice atto naturale, ma un atto psichico complesso.
Anche in assenza di difetti della vista riusciamo benissimo a non vedere. Ne sono testimonianza gli infiniti lapsus visivi quotidiani che si concludono immancabilmente con il rimprovero: “ma non lo vedi!?”, oppure: “ma come ho fatto a non vederlo!?”. È la “psicopatologia della vita quotidiana”, bellezza! Nel vedere o nel non voler vedere entra in gioco una passione, moto del pensiero che esalta o eclissa il lume della ragione. Passione, dunque, che spinge o che frena. Del Vecchio ne ha seguita e coltivata una al massimo grado: la passione per l’impresa, nel senso dell’azienda Luxottica, orizzonte onnicomprensivo dell’investimento affettivo dell’uomo Leonardo, e nel senso dell’impresa da compiere, dell’urgenza di andare oltre, per raggiungere mete impensabili all’inizio della propria umana avventura.
“Nascere con la camicia” è un modo di dire che significa essere favoriti fin dagli inizi da circostanze fortunate. Leonardo la camicia se la guadagna dai Martinitt, l’Istituto per l’educazione degli orfani o dei poveri frutto dalla lungimiranza di Girolamo Emiliani (1486-1537), l’aristocratico veneziano fondatore dell’ordine dei Padri Somaschi. Quarto figlio di emigranti pugliesi, Leonardo nasce orfano di padre nelle “case minime” di Via delle Forze Armate, all’estrema periferia di Milano. Dal padre, “ortolano per conto proprio”, Leonardo eredita il nome e la volontà di non dipendere da altri, dalla madre eredita la dignità, la cifra della lettera con la quale chiede per il figlio più piccolo l’iscrizione all’Istituto, allegando il certificato di povertà, e prendendosi l’impegno di contribuire alla retta. Tutto il resto Leonardo Del Vecchio lo eredita dall’Istituto, dal “collegio” come dice lui: “Io non ho avuto una famiglia. Non ho mai avuto un padre. A sette anni mia mamma mi ha portato in collegio. Ed è stata una fortuna, perché il collegio è diventata la mia famiglia. Stavo bene, mi hanno insegnato le regole e dato un lavoro. Poi l’azienda è diventata la mia famiglia”. In collegio brucia le tappe, uscendo su propria richiesta, anzitempo, con la qualifica di incisore. Alla famiglia chiede subito di investire su di lui comprandogli una bicicletta, un oggetto simbolico: un vettore di movimento per muoversi velocemente attraverso la città, più tardi arriveranno l’elicottero e il jet personale.
Del Vecchio vede un inizio dove gli altri vedono un traguardo: giovanissimo operaio specializzato – traguardo di tutto rispetto nel primo dopoguerra –, si mette “per conto proprio” aprendo una S.a.s. Quando entra in competizione con i suoi committenti, diventando a propria volta un industriale, Del Vecchio rischia tutto nel momento in cui poteva dirsi arrivato, avendo ormai le carte in regola per accomodarsi nella ristretta schiera dei “sciuri”, i “piccoli borghesi” che da bambino gli parevano venire da un altro mondo. Mentre Del Vecchio è un anti-borghese, un picconatore degli assetti costituiti, un disruptor, come sostiene convintamente Ebhardt includendo Del Vecchio nel novero ristretto con Elon Musk, Zuckerberg e pochi altri che “trasformano il mondo con la forza delle proprie idee”.
Torniamo alle passioni (plurale), un filone indagato a fondo sin dal Seicento da Cartesio, Pascal, Spinoza e rivoluzionato da Freud, Lacan, Contri. Una delle molle dell’instancabile azione di Del Vecchio è la paura: una passio o affetto che lo allarma ciclicamente sulla tenuta di Luxottica nel corso della sua incessante trasformazione. Del Vecchio è esente da delirio di onnipotenza, è consapevole di poter fallire e ha paura del fallimento. Una paura che, da acuto stratega, trasforma in analisi approfondite e decisioni fulminee, che mutano radicalmente la situazione di partenza, trasformando la difficoltà o la minaccia in opportunità.
La biografia ne dà puntuale resoconto. Come nella fiaba tradizionale dei tre porcellini, solo chi ha paura del lupo costruisce una casa a prova di lupo. Nella versione inglese della fiaba (1843 circa) è il lupo che finirà nella pentola del porcellino previdente, sorte di molti competitor di Del Vecchio. Ed è ancora la paura che spinge un Del vecchio ottantenne (o quatto volte ventenne?) a realizzare il suo definitivo capolavoro imprenditoriale varando Essilux, risultato della fusione di Luxottica e Essilor. Di nuovo Del Vecchio ha guardato la realtà con altre lenti. Mentre il mondo, con la stampa italiana e francese in testa, si chiede ancora chi abbia vinto tra Luxottica e Essilor, Del Vecchio corona l’impresa di portare la società fuori dalla turbolenza del mercato globale, realizzando un’alleanza strategica con un pericoloso competitor e, in questa prospettiva, con un potenziale nemico. Con un’operazione da vero disruptor degli assetti costituiti – trasformare i nemici in partners e alleati – Del Vecchio tratteggia la road map dalla guerra (commerciale) alla partnership. Una via fruttuosa che oggi non trova estimatori a sufficienza, ma che, praticata, potrebbe illuminare altri scenari di guerra tristemente attuali.
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