Il senso più profondo del produrre e del fruire letteratura è quello di trovare un compagno di cammino. È sorprendersi dinanzi al comparire delle medesime domande che ci turbano nelle parole sfalsate cronologicamente di qualcun altro. È bisogno di silenziosi confidenti. Anche di quelli che, ad un primo sguardo, risultano improbabili, incompatibili, incoerenti. Eppure sono loro, il più delle volte, gli insospettabili portatori della chiarezza a cui aspiriamo. Il tassello mancante di un insieme altrimenti promettente ma privo di forma. Anzi: più la contraddizione tra le parti si fa apparentemente aspra, più la loro dialettica risulta fruttuosa ed intrecciata. La premessa ideale per il verificarsi di una vera epifania.



La stessa che, a un secolo e mezzo di distanza, ha fatto incontrare Giacomo Leopardi e don Luigi Giussani sul terreno di una spasmodica ansia di verità. Il grande materialista e il grande educatore cristiano: un legame quasi controintuitivo, per certi versi addirittura inconcepibile, viste le premesse e le declinazioni della loro parabola esistenziale ed intellettuale. Un abbraccio, tuttavia, inevitabile: perché all’infinito, immenso, inesauribile desiderio di sublime emanato dalla poetica leopardiana, la sete di risposte del teologo milanese si sovrapponeva perfettamente. Galeotta fu una delle liriche più intriganti ed enigmatiche del recanatese: “Alla sua donna”, nella quale i contorni danteschi della femminilità si mescolano all’incedere progressivo di un’apparizione. Al manifestarsi terreno dell’ineffabile che soltanto la poesia può osare avvicinare.



E lì, nel criptico disvelarsi di quella meraviglia, la scintilla di una visione rinnovata dell’essere divampò incontrollabile. Fu Giussani stesso, in un discorso tenuto a Recanati nel 1982 e confluito poi nel celebre volume “Le mie letture”, a raccontare i sentimenti che accompagnarono quella repentina scoperta di affinità: “A un certo punto della sua vita, in un momento equilibrato e potente, Leopardi stende il suo inno non a questa o a quella donna, non a una delle tante donne di cui si era innamorato, ma alla Donna, col D maiuscolo, alla Bellezza, col B maiuscolo. È l’inno a quella amorosa idea che ogni donna gli suscitava dentro: idea amorosa che è intuita come una presenza reale. È stato rileggendo questo brano che, quando avevo quindici anni, mi si è illuminato improvvisamente tutto Leopardi, perché questa è una sublime preghiera. Mi sono detto: che cosa è questa Bellezza col B maiuscolo, la Donna col D maiuscolo? È quel che il cristianesimo chiama Verbo, cioè Dio, Dio come espressione, Verbo appunto. La Bellezza col B maiuscolo, la Giustizia col G maiuscolo, la Bontà col B maiuscolo, è Dio”.



Nascosto tra le macerie di una speranza che sembrava crollata sul peso della propria grandezza, Giussani ravvisò la riaffermazione del solenne e gaudioso annuncio dell’evangelista Giovanni, del Verbo divenuto carne, del Bene venuto ad abitare e a riempire la vuota e fragile caducità umana. La domanda che aveva ossessionato Leopardi – e che, per alcuni eminenti critici letterari non aveva alcuna possibilità di sbocco – si era tramutata in risposta. In risposta universale, e di conseguenza anche personale. Quel grido sconsolato e a tratti cupo era giunto inconsapevolmente all’approdo più alto, nonché al più necessario. Il senso perduto, o latente, era stato individuato e messo, una volta di più, a disposizione di chi era pronto a riceverlo.

Perché Giussani, nell’eco delle aspirazioni leopardiane, non aveva intravisto appena quello che in sede critica – e non senza una certa ragionevolezza – viene spesso indicato come “cripto-cristianesimo”, ma qualcosa che travalicava la poesia, la letteratura stessa, per sconfinare nella vita, nei bisogni di ogni singolo uomo alle prese con il proprio tormento, con la propria sensazione di inadeguatezza. Aveva percepito che la predicazione, da sola, lo sbandierare principi di etica cristiana senza curarsi che questi abbiano un’applicazione e una corrispondenza con il vorticoso, cangiante e complesso fluire del mondo, non è sufficiente.

Inseguire il senso smarrito aveva assunto un significato nuovo e più nobile: calarsi quotidianamente nella realtà e intercettarne i bisogni più radicali. Dare ai ragazzi, agli sperduti, la sensazione di un ritrovamento definitivo. Che passa, inesorabilmente, da un’instancabile volontà di ricerca. La stessa che animava Leopardi. E che, secondo lui, lo aveva reso, parafrasando un’espressione formulata da Ignacio Carbajosa, non soltanto un maestro di umanità, ma anche un instancabile cercatore del duplice volto, umano e divino, della Bellezza. Tanto da smuovere il cuore di uno dei suoi più grandi e fini ammiratori. E instillare in lui un appagamento e una dedizione da lì in poi mai più sopiti.

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