“Magnifico risplendi tu sull’orizzonte del cielo, tu Sole vivente che determini la vita! La terra giace attonita, poiché il suo creatore è tramontato all’orizzonte, al mattino però eccoti di nuovo al di sopra dell’oriente scacci le tenebre e scocchi i tuoi raggi”. Così nell’Egitto di 3500 anni fa il faraone alzava gli occhi al cielo contemplando la magnificenza del Sole che può anche tramontare, ma che si è certi sorgerà nuovamente al mattino.
È immenso il bisogno che oggi, a distanza di millenni, anche noi abbiamo di tirare su la testa, di fissare gli occhi al cielo e alla realtà, per respirare e vivere da uomini, in un tempo in cui siamo chiamati a convivere con la paura, le restrizioni, l’insicurezza. Come il faraone Akhenaton, sempre i poeti hanno rivolto lo sguardo al cielo e agli astri che lo abitano. E il cielo risponde, allargando negli uomini l’orizzonte del desiderio, inducendoli a guardare la sproporzionata piccolezza delle creature e al tempo stesso suggerendo al cuore le domande più vere.
Possiamo ricordare “quegli ancor più senz’alcun fin remoti nodi di stelle” che Leopardi ammira nella Ginestra, o lasciarci sorprendere con Ungaretti dal “limpido stupore dell’immensità” o contemplare, ancora con Leopardi, le “vaghe stelle dell’Orsa sul paterno giardino scintillanti”. Qualunque sia il percorso cui i cieli dei poeti ci invitano, sempre, inevitabilmente quei cieli e quelle stelle sospingono anche ognuno di noi verso le grandi domande della vita: “a che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? Che vuol dire questa solitudine immensa? Ed io che sono?”
L’immensità della volta celeste fa alzare lo sguardo, rimette in moto il cuore, risveglia il desiderio. Ciò che però è paradossale è che tutta la realtà può provocarci allo stesso modo. Paradossale, ma al tempo stesso vero, confermato dall’esperienza che ognuno di noi fa. Non possiamo negare che il reale tante e tante volte ci ha tirato fuori dall’angustia nella quale eravamo finiti. Un pianto, una carezza, una voce, un messaggio, una telefonata. Tutto può risvegliarci, anche i cieli non sempre tersi e suggestivi delle nostre città, i suoni e gli odori delle case in cui abitiamo, le persone che abbiamo intorno, le cose che quando ci svegliamo al mattino sappiamo di non potere evitare, i problemi e le contraddizioni dolorose del vivere, i bisogni prossimi o lontani che ci intercettano, ma anche uno sguardo che non ti aspettavi, uno sprazzo di luce che ti ha incrociato.
Tutto ciò che accade, tutto ciò che è reale può farci alzare la testa e toglierci dal nulla nel quale rischiamo di cadere. Dentro la realtà c’è sempre qualche soffio che ci ridesta, ed è come se illuminasse tutto il resto, mettendoci addosso una curiosità nuova: e se in tutta la realtà ci fosse qualcosa da scoprire?
Il reale è veramente una benedizione! Basta cedere per un attimo all’attrattiva di ciò che ci capita intorno, fatti, cose, persone, circostanze, perché il solito nulla si trasformi in curiosa attesa. “L’attesa non è un vuoto, è un pieno – diceva in una recente intervista il patriarca di Gerusalemme, mons. Pizzaballa – è un modo in cui stare nella realtà. Vivere senza attesa e speranza significa non dare alcun contenuto alla vita. Quando si attende qualcosa o qualcuno, si è vigili, con tutti i sensi all’erta; e appena si vede un segno del suo arrivo, lo si nota subito”.
Anche 2000 anni fa, proprio nella terra di mons. Pizzaballa, è stata una stella nel cielo ad attirare l’attenzione e a fare alzare lo sguardo. Una stella che ha invitato i Magi a mettersi in cammino per andare a vedere. E i Magi, saggi e vigilanti, seguendo la luce di quella stella hanno trovato. Da allora tanti hanno intravisto quella stella e si sono messi in cammino.