Nell’ultimo dei suoi grandi Canti, meditando sulle rovine della piana di Pompei, Giacomo Leopardi addita al lettore la Natura (in pratica Dio, che pure non è mai nominato) come unica responsabile di quella spaventosa distruzione. Del tutto indifferente alla sorte dell’uomo che ella stessa ha seppellito sotto la lava del Vesuvio, la Natura lo può distruggere con uno scossone, come ha fatto secoli fa, ma anche cancellare per sempre dalla faccia della terra, con uno scossone appena un po’ più deciso. Da parte sua l’uomo, nella sua incredibile e colpevole cecità (il titolo del canto è commentato dalle parole di Jo.1: “Gli uomini preferirono le tenebre alla luce”), ha l’ingenuità di ritenersi il vertice della creazione. E parla addirittura di dei che si interessano della sua sorte e scendono per lui sulla terra. Molto più saggia dell’uomo, l’umile ginestra che copre questa terra desolata, e che dà il titolo al Canto, si lascerà a suo tempo coprire dalla lava del vulcano, ma senza essersi prima umiliata chinandosi a chiedere pietà e aiuto ad una Natura assolutamente indifferente a qualsiasi preghiera dell’uomo e alla stessa sorte dell’umanità.
Questo carme di Leopardi costituisce solo un punto di partenza. Premetto che quello della fede, per quanto riguarda il poeta di Recanati, rimane un problema irrisolto e forse del tutto insolubile. Per alcuni l’infinito del famoso idillio costituirebbe un appello a un “Infinito” divino; per altri, molto più probabilmente, la fede sarebbe stata sempre in lui ben poco o nulla presente. Checché ne sia di tutto questo, risulta comunque evidente che nel canto La ginestra, l’assenza della fede in Dio sta proprio alla base della negazione del valore dell’uomo da parte del Poeta. Cancellata dai cieli la presenza di Lui, l’uomo si riduce ad una specie di “muffa” (l’immagine è mia ma rende bene il pensiero leopardiano) sulla faccia della terra. Questo è il messaggio della poesia del recanatese, alla sua conclusione.
Certo si potrebbe chiudere il discorso relegando tutto questo nel solo, insondabile recinto della vita interiore del poeta e della sua personale esperienza del dolore. Ma per un uomo come l’autore delle Operette morali e dello Zibaldone, una simile riduzione del quadro complessivo e del significato della sua opera sarebbe assolutamente improponibile. In tutto ciò che scrive, Leopardi interpreta, attraverso la sua vicenda personale, quella che egli ritiene l’autentica realtà dell’uomo e il suo valore. Questo giustifica sicuramente un interrogativo.
Succede spesso che uomini più dotati o più sensibili di altri si rivelino in seguito degli anticipatori, quasi dei profeti di modi di sentire e di orientamenti che affioreranno in tempi successivi. Viene quindi da chiedersi allora se la nostra epoca, che per molti aspetti ha cancellato il divino dai suoi interessi, abbia anche, ed eventualmente per questo, smarrito il senso del valore dell’uomo. Che la nostra sia un’epoca di smarrimento, anzi di esplicita negazione del concetto stesso di valore oggettivo, nonché di deliberato rifiuto della fede, sembra evidente. Anche senza rifarsi al complesso discorso della “morte di Dio”, forse mai come ora sono risuonate profetiche le parole di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra? (Lc. 8,8)”.
Quanto al valore dell’uomo come tale, se pensiamo ai campi di sterminio, alla diffusa indifferenza per la fame e la stessa sopravvivenza di una parte vistosamente crescente dell’umanità, al valore unico del denaro e del suo potere, alle discariche divenute ambiente di vita di migliaia di persone, alla compra-vendita di esseri umani, alla sordità della politica di fronte ai problemi della semplice sopravvivenza di milioni di persone, ai conflitti armati privi di qualunque giustificazione e di qualunque senso, e a cento altre assurdità cui ci siamo anche troppo tranquillamente rassegnati, sembra non esserci dubbio che mai il valore dell’uomo si è dimostrato altrettanto insignificante. Su questo non sembra possano esserci dubbi. Il problema è se le due cose: la perdita della fede e il dissolversi della considerazione dell’uomo in quanto tale siano tra loro connesse. E in che misura. Senza per questo cadere nel vezzo, abusato, di attribuire ogni guaio del mondo alla perdita della fede.
Si potrebbe impostare un analogo discorso prendendo le mosse da un diverso punto di partenza. A cominciare dal Cinquecento, proprio cioè dal secolo che con l’Umanesimo rinascimentale aveva conosciuto la più solenne esaltazione del valore e della grandezza dell’uomo, la ricerca scientifica lo escludeva radicalmente da questa centralità, relegandolo sempre più ai margini dell’universo. Da Copernico in poi, la visione dantesca del cosmo, di origine biblica, cedeva gradualmente il posto ad una cosmologia sempre più dispersiva e complessa in cui non solo l’uomo, ma la terra che egli abita, il sistema solare in cui la terra orbita e la stessa galassia nella quale quasi si smarrisce questo insignificante pugno di stelle, appaiono sempre più marginali e quasi sperduti dentro l’immensità di un cosmo in continua espansione. Contemporaneamente (non propriamente con Copernico e Galilei, rimasti fedeli alla fede tradizionale) con il proseguimento delle ricerche e delle scoperte, la cultura scientifica, in particolare dopo le affermazioni di Darwin circa l’origine delle specie, emarginava sempre più dal creato l’idea di Dio e, quanto all’uomo, non gli consentiva più alcun privilegio né alcuna particolare distinzione nel crogiolo del naturale sviluppo dell’evoluzione. Una evoluzione guidata dalle sole leggi interne ad essa, che non possono fare riferimento alcuno all’idea dell’uomo come “immagine di Dio”.
Da qualunque punto di vista la si prenda in considerazione, la cultura moderna, almeno nel mondo occidentale, sembra trovare sempre maggiore difficoltà a ripensare Dio come origine del creato; e l’uomo come fine supremo di esso. Questo non ha impedito, è vero, l’affermarsi di rappresentazioni ottimistiche dell’umanità e del suo destino, contro le quali ironizzava appunto la ribellione leopardiana della ginestra. Ma forse si trattava di visioni più o meno consapevolmente legate a residui modi di pensare sorpassati e incongrui, come quelli che noi usiamo parlando del “levar del sole”.
Sarebbe facile replicare che proprio mentre l’uomo riduce gradualmente il “peso” della sua presenza nel cosmo, d’altra parte acquista sempre maggiore capacità di “impadronirsene”, conquistando una sempre più penetrante conoscenza del cosmo stesso e della propria presenza in esso. Ipotizzando, persino, la possibilità di muoversi nell’universo autonomamente, se non di percorrerlo con i propri mezzi in varie direzioni, come fino ad ora ha fatto solo la fantasia degli scrittori. Ma soprattutto maturando la consapevolezza della propria assolutamente unica capacità di comprendere il senso delle cose e persino della loro e della propria limitatezza.
È legittimo in ogni modo, almeno questa sembra la conclusione più corretta di quanto abbiamo detto finora, considerare l’uomo nella sua grandezza e, insieme, nella sua miseria. Ma appunto per questo la domanda da noi posta rimane legittima: nel campo dell’arte, che sembra il più leggibile, nel campo della poesia, della riflessione filosofica, del costume, della sensibilità spirituale, del modo comune di vivere; e ancora nel campo della scienza, della tecnica, della filosofia… in che modo e con quale scopo fede e valore dell’uomo continuano a confrontarsi, a misurarsi, ad esprimersi oggi? C’è o non c’è nella cultura in generale e nel modo comune di pensare una conoscenza del nesso fra questi due valori? O, viceversa, essi appaiono del tutto autonomi e indipendenti l’uno dall’altro?