Nelle società arcaiche la festa era il luogo e il tempo in cui raccogliere insieme tutti i rimedi per combattere il terrore e il dolore. Lo racconta in modo magistrale e suggestivo Emanuele Severino in numerosi suoi saggi: uomini e donne quasi inermi di fronte a una natura crudele e padrona, si radunavano innanzitutto per urlare la loro angoscia contro il mondo enorme che li sovrastava. Da questo urlo nascevano poi, però, armonie diverse, le voci si accordavano le une alle altre, nasceva così il canto. E dopo il canto, la poesia, il mito, il teatro, la filosofia. La festa era il luogo in cui, di fronte alla realtà avvertita quotidianamente come un pericolo, veniva costruita un’immagine in grado di raccogliere insieme grida e paure degli uomini, veniva costruita una musica in grado di combattere tutte le disarmonie. Era anche, insieme, la costruzione di un paese temporaneamente liberato.



C’è ancora qualcuno oggi che ha paura del mondo? Che ha paura della realtà? Che vive con la consapevolezza di essere ogni attimo come in bilico sul nulla? Lontani dalle foreste e dalle belve feroci, riparati dalla crudeltà dei venti e delle tempeste, mollemente adagiati sotto tetti resistenti e tra pareti sicure, ci teniamo in mano il mondo e crediamo di conoscerlo toccando un tasto; riteniamo di essere continuamente in comunicazione con gli altri; possiamo ascoltare tutta la musica del mondo, vedere e leggere ogni cosa di ogni angolo della terra in ogni istante. Come possiamo avere timore di un mondo che stringiamo in pugno come un giocattolo? Come possiamo desiderare di stare dentro un luogo in cui dovremmo essere noi a fare la nostra musica, se possiamo essere inondati da tutta la musica e sopraffatti da tutte le immagini del mondo? Che cosa ce ne facciamo di una festa? E infatti sempre più spesso il momento della festa è ridotto a uno stordimento: come non pensare al sabato sera, alla vacanza trasformati per lo più in una smemoratezza, in una ubriacatura, in uno spaesamento inutile e feroce? Il delirio di onnipotenza con cui affrontiamo la vita ci spinge dunque dentro una bolla di insignificanza e di abbandono. Insignificanza e abbandono di noi, innanzitutto, della nostra stessa sostanza, identità e immagine: qualcun altro agisce al nostro posto nel sabato triste della vita che scambiamo per festa.



La festa arcaica era il luogo in cui gli uomini si mettevano insieme per costruire un rifugio, una casa, trovare una protezione, un senso della vita che appariva continuamente minacciata; il sabato in cui noi abbiamo trasformato la festa è il luogo in cui avviene invece lo spaesamento. Nel migliore dei casi, cerchiamo occasioni per divertirci: televisione, musica, cinema, teatri, tutto però rigorosamente relegato nella dimensione dello spettacolo, in quella dimensione, cioè, in cui noi non siamo in discussione; o peggio cerchiamo proprio la fuga, la lontananza da noi. Ma proprio dentro questo buio misterioso di noi, emerge forse una scintilla luminosa di quella verità che ci siamo scordati. Il delirio di onnipotenza è soltanto una maschera: sappiamo bene che, come i nostri antenati, noi non siamo padroni del nostro destino; sappiamo bene che la felicità, l’appagamento profondo del nostro desiderio non stanno dentro uno schermo, nella risposta di una tecnologia invadente, quanto irrisoriamente inutile circa la questione fondamentale che si agita nel nostro cuore. Lo aveva capito bene Giacomo Leopardi che giusto duecento anni fa scrisse L’infinito: il nostro desiderio è più grande di ogni cosa perché non è il desiderio delle cose, ma di una vastità e profondità che non possiamo possedere da noi.



Ma se un giorno quella vastità profonda, se un giorno Dio ti viene incontro, allora le tue braccia possono aprirsi, la tua voce può cantare, le tue gambe possono camminare in giro e in tondo, allora sì che ci puoi ballare sul mondo. La nostra festa non sarà più, come per i nostri antenati, il tentativo di rifugiarci insieme in un recinto per trovare un senso, per difenderci dal mondo; la nostra festa non sarà più il folle spaesamento di un sabato tragico e insignificante perché non sappiamo più nemmeno cercare un senso. La nostra festa è il paese in cui siamo stati convocati da un Dio che ha braccia, voce, gambe. Da un Cristo che non solo ci dice dove dobbiamo andare, ma che ci cammina vicino e ci dà un senso. E intanto balla con noi in questa festa. Con suo Padre che, qui con Lui, attraverso Lui, guarda, come ha fatto nel settimo giorno – la prima festa – quello che ha creato. Che gli somiglia, che ha dentro il cuore lo stesso desiderio infinito di felicità. Come facciamo a non fare festa?