Il Mistero del Venerdì Santo accade, oggi, in una situazione storica inedita e drammatica per tutta l’umanità. La cattiveria inveterata sembra essere il rumore dominante. La stessa possibilità dell’uso dell’atomica non è più così remota. Pensiamo alla leadership russa o ad alcune affermazioni di altri politici. In tale prospettiva, l’altro è niente. La facilità di annichilire – e di essere a sua volta annichiliti – è impressionante.
Eppure la teologia russa ha visto fino in fondo Chi annienta il male con la Sua morte. Il filosofo Lev P. Karsavin ha dato contributi fondamentali, in tal senso, a tutta la famiglia umana.
Parliamo di questo con Lubomir Žák, teologo slovacco, studioso di fama internazionale, autore di numerosi saggi e pubblicazioni sulla teologia russa.
In che senso la teologia della kenosis di Lev Platonovič Karsavin, morto di tubercolosi, in un campo di concentramento sovietico, può aiutarci oggi a scoprire la forza del Venerdì Santo?
Perché oggi, proprio mentre l’ombra della morte spirituale sembra allungarsi su ogni strada e piazza, la voce di Karsavin ci raggiunge come un’eco da un passato non troppo lontano, portando con sé un messaggio di speranza. Morto nel 1952 di tubercolosi, in un campo di concentramento sovietico, Karsavin ci lascia in eredità una riflessione davvero unica sulla kenosis, quel misterioso auto-svuotamento di Cristo, che rinuncia alla gloria divina per abbracciare la fragilità umana. Questo straordinario e purtroppo in Italia ancora poco conosciuto filosofo, storico della cultura e poeta intuì, nel profondo della sua sofferenza, che nell’abbandono e nel sacrificio di sé giace una forza trasformativa di valenza universale, capace di scardinare le porte dell’egoismo e dell’indifferenza, che troppo spesso sigillano i nostri cuori. L’auto-svuotamento, di cui parla ad esempio nel Poema sulla morte o nei sonetti redatti nel gulag, non è un ascetico rinnegamento della vita, ma piuttosto un invito a vivere più pienamente, a entrare in una comunione più personale e più viva con Dio in cui, per il fatto stesso di esistere, “viviamo, respiriamo e ci muoviamo” (At 17,28). È un richiamo all’amore disinteressato, all’accettazione dell’altro senza pregiudizi, a una vulnerabilità che non ha paura di mostrarsi per quello che è, in tutta la sua fragilità e bellezza. Ecco qui la perenne attualità del pensiero di questo incredibile uomo e cristiano che proprio per la sua incondizionata accettazione della kenosis come idea di fondo e stile di vita è stato scelto nel gulag da alcune decine di giovani detenuti come un comune maestro di vita, nonostante la loro diversità confessionale o religiosa!
Cosa ci dice, in fondo, questo concetto?
In un mondo in cui il valore di una persona sembra misurarsi troppo spesso in termini di successo materiale, di egoismo o di violenza, la kenosis ci sussurra che c’è un’altra via. Ci ricorda che l’umiltà e il sacrificio di sé ci possono condurre in una vita ricca di senso, dove ogni atto d’amore diventa un riflesso del volto di Cristo. Questo cammino verso l’auto-svuotamento e il sacrificio può sembrare doloroso, ma è proprio attraverso la capacità di dispensare gratuitamente e generosamente amore incondizionato che possiamo ritrovare la connessione perduta non solo con gli altri, ma anche con la parte più vera di noi stessi.
Come si può vivere secondo tale logica che contrasta il mondo? Qual è il vantaggio per l’uomo?
Karsavin era convinto che un atteggiamento di condivisione della croce fa delle persone adulte bambini, privi di ogni pericolosità perché puri, innocenti e capaci di con-soffrire. E la kenosis fa di loro bambini-poeti. Mi piace come il filosofo russo descrive questo stato d’essere: “Con le sue sofferenze, con le sue cadute, bagnate di lagrime, il bambino intreccia per sé una corona. Giocando, la indossa; ride del maggior riso che sia al mondo – il riso attraverso le lagrime. Così ride il fanciullo: non hanno ancora finito di scorrere sulle guance lagrime amare che già brillano gli occhi. Dai suoi lamenti il poeta trae una canzone: il poeta è come tutto il mondo, che è diventato in lui gioia”.
La kenosis, quindi, non è solo una riflessione teologica o filosofica.
No, infatti. È una chiamata all’essere e un invito a guardare oltre le apparenze, a riconoscere e celebrare la sacralità in ogni persona che incontriamo, a vedere nel volto dell’altro il volto di Cristo. Ricorda che anche nel più desolato dei deserti spirituali possiamo essere giardinieri di speranza, coltivando con pazienza e amore i semi di una trasformazione che inizia dentro di noi e si irradia nel mondo. Nel Poema sulla morte Karsavin esprime, in questo senso, un pensiero che andrebbe scolpito nel cuore di ogni nuova generazione umana.
Cosa dice?
“Se, infatti, il mondo cominciasse a voler morire come Dio, in Gesù Cristo, il tempo non si trascinerebbe pigramente. Esso trascorrerebbe con precipitosa rapidità, come i mirabili astri Divini, in una circolarità infinita: si ricongiungerebbe il suo principio con la sua fine. Nulla si ripeterebbe, ma tutto si muoverebbe e insieme starebbe fermo. Tutto perirebbe immolandosi e tutto risorgerebbe, ossia vivrebbe eternamente una vita beata attraverso la morte. E per la grande forza della Vittima tutti avrebbero tutto. A tutto il mondo, al minuscolo moscerino, con enorme sofferenza, ma anche con enorme gioia – io darei tutto me stesso; beato morirei per tutti, e per il ragno, e per il rettile, e per la nera mosca. Ed essi tutti, sia il pigro serpente, sia l’affaccendato moscerino – tutti si affretterebbero a risuscitarmi con la loro morte sacrificale e mi risusciterebbero. Ma io questo non lo saprei prima, o è come se non lo sapessi: può forse essere una morte sacrificale se si sa per certo che si risorgerà? Ma con quale gioia ci incontreremo su questa nostra terra, sempre la stessa. Rideremmo e piangeremmo di gioia, così che non faremmo a tempo a piangere un po’ per il dolore”. Così, nel ricordo di Karsavin e nella sua visione della kenosis, troviamo non solo una guida per il nostro tempo, ma una rivelazione profonda: che attraverso l’umiltà e l’amore possiamo scoprire la forza di Dio che ci fa risorgere dalle ceneri della morte spirituale, riflettendo la luce di Cristo in un mondo che anela alla redenzione.
(Vincenzo Rizzo)
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