Caro direttore,
c’è un episodio che nell’ora attuale rischia di riapparire alla coscienza europea come uno spettro. Nel novembre del 1876 l’allora cancelliere russo Gorciacov, attraverso una lettera, invitava il cancelliere tedesco Bismarck, pilastro degli equilibri internazionali, ad occuparsi della questione orientale perché a suo avviso “questione europea”. Dopo aver letto la lettera il cancelliere tedesco annoterà a margine: “Qui parle Europe a tort. Notion géographique”.



Va da sé che una tale concezione meramente geografica seppelliva mille anni di costruzione dell’idea di Europa; idea che, pur attraversando stagioni diverse, faceva dire a Rousseau, appena cento anni prima di Bismarck: “non ci sono più oggi né francesi, né tedeschi né spagnoli né inglesi, ci sono solo gli europei”.



Quell’episodio è indicativo di una deriva nazionalistica propria degli Stati europei che condurrà il nostro continente ad essere l’epicentro di due guerre fratricide. Solo all’indomani della guerra gli europei rielaboreranno una nuova e più matura idea di Europa che, però, nonostante gli indubbi progressi, non ha mai saputo tradursi in un’autentica entità politica.

Se, infatti, la Comunità europea ha avuto il merito di garantire settant’anni di pace e un certo benessere economico e sociale, d’altra parte essa è stata sempre un matrimonio di interesse tra attori incapaci di una visione pienamente sovranazionale. L’ibrido istituzionale che è nato, e che rappresenta un unicum nel diritto internazionale, davanti alle crisi economiche e dell’immigrazione di questi anni ha prestato via via il fianco al riposizionamento degli Stati in senso sempre più nazionale, e oggi, davanti alla crisi più grande della sua storia recente rappresentata dal coronavirus, pone la stessa Comunità Europea davanti ad un bivio storico.



L’emergenza sanitaria ed economica in corso infatti giorno dopo giorno mostra i segni di una tragedia di portata biblica, come ha autorevolmente scritto l’ex presidente della Banca centrale europea Draghi, davanti alla quale l’Europa deve scegliere tra l’essere e il nulla, senza più soluzioni intermedie. Essa infatti si trova costretta dalle circostanze a decidere nuovamente del suo destino: se cioè avviare meccanismi di tipo simil-federale (come ad esempio l’introduzione di forme di condivisione del debito pubblico tra gli Stati), dando un impulso nuovo alla costruzione europea capace lentamente di fare dell’Unione qualcosa di più grande della somma degli Stati membri; o se proseguire il suo riposizionamento in senso nazionale e quindi ritornare definitivamente a concepirsi come un’espressione geografica, perché “gli Stati [quando si confondono i popoli e le nazioni] – sottolineava Braudel – uccidono l’Europa [politica]”.

Da questo punto di vista, la minaccia di Conte “faremo da soli” nel drammatico vertice del Consiglio d’Europa del 26 marzo scorso non è tanto frutto di tatticismo ma l’alternativa all’incapacità delle istituzioni europee di venire incontro ai paesi più in difficoltà nella loro “ora più buia”, alternativa destinata a seppellire ogni idea di Europa. Come si potrà infatti chiedere ai popoli oggi lasciati soli di fronte ad un’emergenza che li mette in ginocchio di continuare a nutrire sentimenti europei?

Per la Comunità europea si aprono dunque i giorni più difficili della sua storia, laddove è in gioco il progetto stesso dei Padri, capace allora non solo di superare l’odio appena consumato nel conflitto mondiale ma di una visione che guardava oltre il modello stesso posto in essere, dal momento che esso costituiva “il primo nucleo concreto di una federazione europea”, come osservava Schuman in quel famoso 9 maggio del 1950 quando veniva lanciato il primo progetto di Comunità Europea.

In questi Settant’anni, tuttavia, l’unione federale non ha mai visto la luce e gli attori hanno mantenuto ad ogni passo la logica del matrimonio d’interesse; logica oggi non più sostenibile. Del resto, occorre che tutti i paesi membri, anche quelli apparentemente più solidi, comprendano che una risposta nazionale alla crisi globale è comunque insufficiente, ed è destinata a impoverire tutti.

Come ha ben espresso il primo ministro Conte nella lettera al presidente del Consiglio europeo: “questa crisi globale richiede una risposta coordinata a livello europeo”, attraverso strumenti straordinari e innovativi di cooperazione e una sinergia a tutti i livelli scientifico, economico, politico. Risposta vieppiù necessaria se è vero, come osservava l’eminente politologo Fabbrini recentemente sulle colonne de Il Sole 24Ore, che ci troviamo dentro una crisi di sistema paragonabile a quando nel 1944 a Dumbarton Oaks le grandi potenze ridisegnavano i nuovi assetti internazionali fino a qual momento ritenuti impensabili. L’auspicio è che l’Europa, grazie anche al contributo di idee della società civile oltre che delle élites, trovi in sé il coraggio per rispondere all’appello della storia e dare il suo contributo all’altezza della sua tradizione.

Lo sviluppo dell’idea di Europa le viene in soccorso: esso mostra come la costruzione della sua identità geografica, storica, religiosa e culturale sia sempre maturata fronteggiando un avversario comune. Oggi il nemico è invisibile ma quanto mai presente e minaccia le nostre vite e le nostre sicurezze. Nei giorni lunghi che l’Europa si prepara a vivere essa riprende nelle mani il proprio destino scegliendo se condannarsi a diventare poco più che un’espressione geografica, o se, mossa da una comune visione, ritornerà a pensare con Montesquieu: “Se sapessi qualcosa che fosse utile alla mia patria e che fosse di pregiudizio per l’Europa  […] la considererei come un crimine”.