Cosa prova chi si trova sotto assedio, circondato dai nemici e costretto allo stremo dalla fame e dal freddo? Come si trasforma l’essere umano, non soltanto nel fisico, ma anche nella psiche, se sottoposto a queste condizioni? Poche opere danno una risposta a queste domande meglio di Leningrado. Memorie di un assedio di Lidija Ginzburg, pubblicato ora da Guerini e Associati nella traduzione di Francesca Gori, per la collana “Narrare la memoria” promossa dall’Associazione Memorial Italia.
Nata a Odessa nel 1902 in una famiglia della classe media dell’intelligencija ebraica, la Ginzburg si trasferisce nel 1922 a Pietrogrado, entrando a far parte del gruppo dei formalisti. Con l’arrivo al potere di Stalin, viene attaccata proprio come esponente del formalismo e perseguitata anche per la sua origine ebraica.
Nei suoi appunti, rielaborati per anni, la Ginzburg ricostruisce la vita quotidiana ai tempi del terribile assedio di Leningrado, un assedio durato quasi due anni e mezzo, dal settembre 1941 al gennaio 1944, che vide la città resistere con estremo coraggio all’invasione nazista. Quello che mostrano queste memorie non è però la glorificazione sovietica della resistenza di Leningrado, ma le sofferenze della vita quotidiana, descritte con uno stile scarno e privo di qualsiasi retorica.
L’opera della Ginzburg – che riuscì a vedere la luce in Urss soltanto alla fine degli anni Ottanta e che finalmente oggi arriva anche in Italia – non si riduce a un semplice diario, ma rappresenta un saggio letterario e filosofico, persino con interessanti sperimentazioni stilistiche. Come sottolinea nella bella introduzione Francesca Gori, “nelle Memorie troviamo traccia del vissuto dell’autrice, ma i materiali utilizzati, pur conservando l’immediatezza e la spontaneità delle esperienze personali, sono filtrati attraverso la coscienza di chi scrive e sottoposti a un’analisi distaccata, quasi scientifica”.
La Ginzburg visse sulla propria pelle la tragedia di questa città, rimanendo ad accudire la madre, che morì di distrofia alimentare nel 1942. La stessa scrittrice riuscì a sopravvivere soltanto grazie a un modesto impiego nel Comitato della Radio di Leningrado, che le consentì di non morire di fame. Protagonista della narrazione, sia come soggetto pensante sia come oggetto delle vicende, non è però la Ginzburg stessa, ma una sorta di alter ego, l’intellettuale N, volutamente depersonalizzato per rendere meglio il carattere universale dell’esperienza umana descritta in queste pagine. Attraverso le azioni e i pensieri di questo intellettuale ci immergiamo nella vita della città sopravvissuta al terribile primo inverno dell’assedio e che sembra poter trovare un sollievo dall’arrivo della primavera. Ma questo sollievo è soltanto apparente: se la fame e il freddo dell’inverno avevano infatti provato nel fisico gli abitanti di Leningrado (“Nei suoi appartamenti la gente lottava per la vita, come un esploratore polare in pericolo. Al mattino si svegliavano dentro un sacco o una caverna che si erano costruiti il giorno prima con tutte le cose che erano riusciti ad ammucchiarsi addosso. Si svegliavano alle quattro o alle cinque. Durante la notte erano riusciti a riscaldarsi. Ma tutto intorno erano circondati dal freddo che li avrebbe tormentati senza tregua per tutto il giorno”, p. 33), l’arrivo della primavera provoca un’altra forma di tortura, questa volta psicologica. Ricorda infatti la Ginzburg: “l’ossessione del cibo, le conversazioni maniacali sul cibo: tutto questo era aumentato enormemente durante la tregua. Nei giorni della grande fame, la gente per lo più era silenziosa. Non c’erano più risorse, così non era rimasto spazio per le divagazioni psicologiche sulla realtà o per il ricorso all’eterna pulsione umana di affermazione dei valori. La quantità di sofferenza aveva modificato la qualità della sensibilità. Allo stesso modo un uomo gravemente ferito sul momento non sente il dolore e chi sta per morire assiderato sprofonda in una sorta di piacevole torpore. La fame vera, come è risaputo, non è come il desiderio di mangiare” (p. 72).
L’uomo dell’assedio è imprigionato in un cerchio, che è cerchio fisico (la città assediata), ma anche il simbolo di una coscienza chiusa in se stessa. In questa apparente mancanza di una via d’uscita, però, esiste una speranza, rappresentata dalla scrittura: “Chi scrive, che lo voglia o no, entra in dialogo con il mondo esterno. E anche quando chi ha scritto muore, ciò che è stato scritto rimane, senza bisogno di autorizzazioni. Forse per una coscienza introversa sarebbe più semplice privarsi di un’esistenza sociale postuma, con tutti i benefici che comporta. Forse, in fondo preferirebbe essere interamente annientata, con tutti i suoi contenuti. Ma anche quando chi ha scritto muore, ciò che è stato scritto rimane. Scrivere del cerchio è spezzare il cerchio. Bene o male è sempre un’azione. Nell’abisso del tempo perduto, qualche cosa è stato trovato” (pp. 91-91).
L’arte della Ginzburg riesce così a riportare in vita ciò che rischiava di rimanere sepolto, facendoci percepire appieno la tragedia di una città e di un popolo e mostrandoci quale sia il valore salvifico della memoria.