Liliana Segre ha tenuto ad Arezzo l’ultima – speriamo non sia così – testimonianza pubblica, raccontando ancora una volta la sua avventura umana di andata e ritorno dall’inferno. La sua è la storia di una ragazzina che a otto anni viene costretta a confrontarsi con l’espulsione da scuola e l’abbandono da parte delle compagne: “solo due continuarono a venire a giocare con me”.



“Mi dissero che non potevo andare a scuola perché ero ebrea, ed io non capivo cosa significasse la parola ebrea, era la prima volta che la sentivo”. Così la Segre racconta l’inizio della sua odissea nel docufilm di Neri Marcorè I figli del destino, andato in onda su Rai1 lo scorso 23 gennaio.

Fallita la fuga in Svizzera, Liliana e il padre furono imprigionati a Torino. Qui, dopo i tremendi interrogatori, l’uomo tornava in cella disperato come un bambino. Lei lo accoglieva allora come una madre, una sorella, mentre con passi da gigante si allontanava dai suoi 10 anni.



Ad Arezzo è stata inaugurata il 9 ottobre l’Arena Jeanine, dedicata a una giovanissima compagna del campo di concentramento. Nel docufilm Liliana racconta con pacata drammaticità l’incontro, il legame e poi la fine del loro rapporto, il più importante di quegli anni di reclusione. Jeanine e Liliana lavoravano nella fabbrica di proiettili del campo, lì servivano mani veloci e piccole, da bambine. Liliana aveva ormai imparato che nel campo non ci si poteva affezionare a nessuno, ne andava della sopravvivenza e lei era diventata – così si definisce – una “lupa affamata di vita”. Un giorno Jeanine perse due dita durante il lavoro. Di lì a breve entrambe, con altre ragazze, furono chiamate da due ufficiali per la selezione. Era il momento in cui si sceglieva chi sarebbe sopravvissuto e chi andato alle camere a gas. Nude, le ragazze sfilavano davanti ai loro carcerieri che le esaminavano e decidevano se farle vivere o morire. Jeanine era qualche posto davanti a lei e così Liliana, congelata nel corpo e nel cuore, poté sentire il suo verdetto: “Tu di là”. “Vai, sei viva” era la frase che segnava il ritorno nelle camerate, e Jeanine non ci sarebbe tornata. La Segre racconta di non essersi mai perdonata la glacialità di quel momento. Non riuscì a dire nulla alla sua amica, non un ciao, né “Jeanine ti voglio bene”.



Quella separazione muta e pietrificata mi è tornata in mente, leggendo che l’arena inaugurata a Rondine, Cittadella della pace, era stata battezzata l’Arena di Jeanine. “Jeanine ti voglio bene”, la frase che rimase nei pensieri di una Liliana ridotta a “lupa affamata”, riecheggia oggi in tutto il mondo ed è diventata una frase di pace e di riconciliazione. La stessa frase che ha fatto sentire Liliana morta, non più umana, nemica della sua amica, la medesima frase ha trovato finalmente uno spazio pubblico di diffusione e testimonianza.

È proprio ciò che accade in una psicoanalisi: la frase attorno a cui si è costruita la psicopatologia – e che tanto spesso ha la forma descritta dalla Segre, del “non posso dire quel che vorrei” – attraverso il lavoro di rielaborazione che l’analizzante svolge con l’analista, diviene la frase della soluzione, della salute, della pace. Con la caduta del “non” si scopre di poter dire, di poter fare, di poter porre. E in questo tornare a dire, fare e porre, c’è un recupero di libertà che è sempre associato al perdono.

Liliana Segre dice di non essersi mai perdonata per non aver detto una parola a Jeanine e ad Arezzo ha ribadito di non essere capace di perdonare neppure i suoi aguzzini, eppure proprio lei racconta ancora nel docufilm che con la sconfitta dei nazisti e la liberazione del campo si trovò con una pistola a portata di mano, avrebbe potuto afferrarla e uccidere un ufficiale – forse lo stesso che aveva mandato a morire Jeanine? Poco conta, in certe circostanze uno vale l’altro –, ma tentata non cedette. Allontanandosi dall’arma pensò: “Io non sono come loro”.

Liliana non brandisce la vendetta e in questo atto da cui si sottrae brilla la traccia di un difficile perdono, che quando si realizza si accompagna sempre alla formulazione di un giudizio nuovo, di un nuovo modo di dire, fare e porre.