L’artista e la sua creazione. Frammenti di una scintilla celestiale che rinnova ogni volta, nell’effimero dipanarsi della dimensione terrena, l’accadere miracoloso del trascendente. Nell’inesauribile mistero di tale connubio si celano gli aneliti più primordiali dell’uomo, da sempre attratto dal sublime e dalle sue manifestazioni, ma anche timori, irriverenza, pudica e ineluttabile arroganza. Arte, infatti, non significa appena accontentarsi di una generica emulazione della natura, ma imporre a sé stessi una continua sfida, un affannoso inseguimento, la chimera della trasfigurazione e del superamento della stessa. Nell’atto della produzione umana, del conferimento di un soffio vitale alla materia inerte, è certamente insita una sentita ode alla bellezza, ma anche un tormento consumante che scaturisce dalla volontà di affermare con forza la propria abilità e la propria identità. Ma anche dal dubbio, forse impossibile da sciogliere: l’artista è davvero il profeta dell’impossibile o è un cronico narcisista?
Archetipo di questo interrogativo esistenziale, applicato per di più alla questione del sentimento amoroso, è certamente Pigmalione, protagonista di uno dei miti più celebri e significativi delle Metamorfosi di Ovidio, posto, non a caso, nel X libro, nucleo centrale di tutto il poema e narrato parallelamente alla tragica vicenda di Narciso. Re di Cipro secondo alcuni, semplice cittadino della ridente isola secondo altre fonti, il leggendario scultore, disgustato dalla condotta dissoluta delle Propetidi (prostitute che osarono rinnegare la divinità di Venere e per questo tramutate in pietra), visse a lungo da celibe. Almeno fino al giorno in cui “scolpì con arte mirabile / il candido avorio, e gli diede una forma con cui non può nascere / nessuna donna, e s’innamorò della sua opera”.
Ben presto, sbalordito dal grado di perfezione raggiunto, cominciò a relazionarsi con essa come se dovesse iniziare a muoversi da un momento all’altro: la vestì di colori sgargianti, la decorò con perle e pendenti, le adagiò il capo su un pregiato letto di piume. E tanto desiderò che quella finzione lo abbracciasse di rimando che Venere in persona, a seguito di una preghiera innalzata in occasione della festa a lei dedicata, donò al supremo inganno la fiamma della vita.
Un lieto fine in piena regola, si direbbe. L’apoteosi della finzione che si fa corpo, l’emblema dell’arte e della sua inarrivabile potenza. Ma già i contemporanei, affascinati dalle peripezie del genio cipriota, si interrogarono a lungo sul senso profondo di questa dialettica, inaugurando un filone di pensiero che attraverserà, in Italia, le inquietudini di Petrarca, Foscolo e Leopardi: può l’illusione essere un efficace surrogato dell’autentica felicità? Possono le nostre aspettative imporsi sulla realtà delle cose e completarci come vorremmo? E cosa succede quando, per tornare a Narciso, lo specchio in cui la nostra immagine si è a lungo riflessa finisce per andare in pezzi?
Il paradigma dell’esperienza artistica ed amorosa che fa capo a Pigmalione presuppone, accanto ad un disperato bisogno di interezza, una perversa declinazione possessiva, un’idea di plasmazione e di autoaffermazione che si accontenta di agire sul piano confortevole del fantasmatico, finendo per amare non tanto la donna che per grazia degli dèi gli è accanto, ma il frutto del suo ingegno. Indirettamente, dunque, Pigmalione finisce per amare virtuosisticamente la propria persona. Creatore di un oggetto divenuto oggetto egli stesso.
A queste conclusioni, seguendo strade talvolta diametralmente distanti tra loro, sono giunte le svariate riscritture moderne di questo mito, così iconico da affascinare non soltanto la grande letteratura – Rousseau e Pirandello, per menzionarne solo alcuni – ma anche la musica leggera, che in tre diversi decenni ha prodotto altrettanti videoclip più o meno esplicitamente ispirati al poema ovidiano. Hole in My Soul degli Aerosmith (1997), Una come te di Cesare Cremonini (2012) e Save Your Tears di The Weekend (2020), nella rivisitazione con Ariana Grande, prendono tutti le mosse dalla medesima premessa: un protagonista intento a fabbricare la donna dei propri sogni.
In ognuno dei brani l’indaffarata ansia del mitico scultore si ripete con chirurgica precisione: l’amata viene accuratamente assemblata, vestita, ornata degli abiti più raffinati e, una volta avvenuta l’impronosticabile trasformazione, educata ed istruita ad assumere comportamenti coerenti rispetto alle consolidate norme della socialità. Ma proprio quando il processo di creazione sembra esaurirsi con esito felice, ecco che i tre finali spiazzano il loro fruitore, conferendo al mito una nuova, malinconica sfumatura.
I visionari esperimenti si rivelano fallimentari: nel primo caso, il giovane Pigmalione, rimasto solo nonostante i tentativi ostinati di rendere la sua bambola estremamente ubbidiente, comprende l’impossibilità del proposito e, mano nella mano, dopo l’ennesima delusione, si allontana insieme alla compagna di scuola che, in silenzio, lo aveva sempre amato a prescindere da ogni difetto; nel secondo, lo scultore si tramuta in statuina e viene simbolicamente tenuto in mano dalla donna, un tempo blocco di materia senz’anima; nel terzo, infine, si scopre che a manovrare la macchina di produzione delle bambole è, a sua volta, un pupazzo dalle fattezze umane, il quale, al termine della catena di montaggio, si affianca alla sua compagna, sinistramente e asfitticamente confezionata.
Perché la felicità non può avere la consistenza della plastica. Non sempre ha il volto delle nostre pretese. E il nostro bisogno di amore non può sfociare in un’ottusa ricerca di ciò che siamo già. La meraviglia dell’imprevedibile non ha prezzo: è verace, sincera, duratura. È la maturità di non voler cambiare gli altri. È la libertà di non dover cambiare sé stessi.
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