Virginia Woolf, gigante della letteratura del Novecento. Non era un’alpinista, pur amando molto passeggiare tra boschi e torrenti. Ma se ne intendeva, suo padre era Leslie Stephen, letterato filosofo alpinista, uno dei fondatori dell’Alpine Club nel 1857, progenitore di tutti i circoli alpini europei, e autore del Terreno di gioco dell’Europa, capolavoro della letteratura di montagna. Quindi a casa sua si parlava di scalate, eccome. Scrisse Virginia, tra i suoi capolavori, anche Una stanza tutta per sé, che col tempo è diventato un manifesto dell’identità femminile. La brava Linda Cottino scrive ora Una parete tutta per sé (Bottega Errante Edizioni, 2024) che si richiama esplicitamente a Virginia. La donna deve disporre di “una stanza tutta per sé, dove stare in silenzio, pensare, scrivere, concentrarsi. Così anche le donne alpiniste, con una parete tutta per sé, potranno scalare, creare, vivere”.



Leggiamo le storie, deliziosamente raccontate, delle imprese di sette magnifiche sconosciute, donne alpiniste di fine Ottocento, non passate alla storia alpinistica come altre del Novecento che hanno firmato prime ascensioni prestigiose, da Beatrice Tomasson sulla sud della Marmolada a Jeanne Immink (che ha una cima dedicata nelle Pale di San Martino), fino a Lynn Hill, Catherine Destivelle, Nives Meroi e tante altre che nei tempi moderni hanno superato i colleghi uomini.



Invece i nomi delle pioniere forse non ci dicono molto: Margaret Jackson, Lucy Walker, Meta Brevoort, Kate Richardson, le due sorelle Pigeon, Lizzie Le Blond. Eppure hanno realizzato a fine Ottocento imprese fantastiche, di cui quasi nessuno era a conoscenza e che Cottino con passione ci descrive. Le sorelle Pigeon sul Monte Rosa scesero dal Colle Sesia verso Alagna, appicco verticale e ghiacciato ritenuto allora impossibile in discesa, Kate Richardson sul Monte Bianco percorse per prima la cresta tra l’Aiguille de Bionnassay e il Dôme du Goûter, una linea sottile sopra l’abisso ritenuta allora dagli alpinisti uomini una “cresta impossibile, la più terrificante delle Alpi”.



La stessa Kate perse il suo anello d’oro sul Pelvoux, nel Delfinato, che poi fu incredibilmente ritrovato tra roccia e ghiaccio e riportato a valle da una guida. Il suo commento, ambiguo come un oracolo, fu che “la montagna ha rifiutato il mio anello, è stata meno ospitale del mare, che sempre ha conservato, fedele, quello dei Dogi”.

Tante sono le storie che ci racconta Cottino, come quelle di Meta Brevoort che andava su ghiaccio e roccia meglio di tante guide ma per farlo doveva sollevare l’ingombrante gonna lunga, scoprendo mutandoni bianchi immacolati che la guida dietro di lei guardava con meraviglia. Più pragmatica, Lizzie Le Blond, tre volte sposata, fondatrice e prima presidente del Ladies’ Alpine Club (presidente onoraria regina Margherita di Savoia, sì, proprio quella del rifugio in cima alla Punta Gnifetti sul Rosa), sopra i maschili pantaloni alla zuava indossava alla partenza la lunga gonna d’ordinanza che poi si toglieva all’inizio dell’ascensione. E ricordiamo che il copyright ottocentesco del titolo del celebre libro di Leslie Stephen (appunto il padre di Virginia Woolf) sarebbe in realtà di Jane Freshfield (a sua volta madre del famoso alpinista ed esploratore William Douglas Freshfield) che per prima definì le Alpi come “Playground of Europe“.

Da donna a donna, il cerchio si chiude, quindi. Anzi, lasciamolo un attimo aperto per far entrare un’altra presenza femminile. Sul libro di vetta della Grande Ruine, nelle Alpi del Delfinato, c’è anche il nome di Tschingel, in cima più di un secolo fa con i primi salitori. Era una deliziosa intraprendente cagnolina, che si rifiutò di essere lasciata al rifugio e seguì quatta quatta le tracce umane.

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