Una cara amica e collega ha inviato al nostro gruppo whatsapp un invito a ritrovarsi che iniziava con la parola “Ragazz*”, cioè con l’asterisco a coprire la desinenza maschile. Questo in segno di rispetto anti-sessista, perché al gruppo sono iscritti uomini e donne. Non voglio considerare questa nuova moda, con cui tutti ci siamo imbattuti ed è già ampiamente commentata con prese di posizione spesso feroci e accuse reciproche che vanno dal fascioleghista al global-radical-chic e tutta una coloritura di offese che la dice lunga sulla nostra moderna (in)capacità di dialogo culturale. Racconto solo che quando ho scritto all’amica che quell’asterisco mi sembrava ridicolo, mi sono beccato anch’io un’accusa, quella di essere vecchio, perché ormai l’asterisco “si usa”. Esso nasconde addirittura una battaglia per i diritti civili a favore della donna.
Nella grammatica italiana l’uso della desinenza maschile che comprende anche il femminile si chiama “maschile indifferenziato”. Dire ad esempio che “tutti gli uomini del mondo hanno pari dignità” non vuol dire, per la grammatica, che solo i maschi hanno la dignità; dire che “tutti i bambini sono invitati al Centro Estivo” non esclude le bambine, e così via. Ma il maschile indifferenziato per certi moderni combattenti per i diritti civili suona come lesivo della dignità di genere.
Ora, essere vecchi ha i suoi vantaggi. Permette di ricordare, ad esempio, che la battaglia contro il sessismo della grammatica risale ad anni non sospetti: era il 1987 quando, su indicazione del Parlamento, la celebre linguista Alma Sabatini redasse le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” in cui sbucava l’idea dell’asterisco: e il governo era a maggioranza democristiana, figuriamoci!
Oppure essere vecchi permette di ricordare l’ironia con cui il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano accolse la riforma antisessista dell’allora presidente della Camera (era il 2013) Laura Boldrini che introdusse termini come ministra, deputata, assessora, sindaca; è difficile tacciare il presidente Napolitano di essere reazionario o non avere a cuore parità e libertà civili e politiche e così, sostenuto dal suo esempio, dico che quelle parole mi suonano stucchevoli, fastidiose e anti-grammaticali, delle autentiche scemenze, esattamente come l’asterisco. Pazienza se siamo vecchi (ma la Boldrini ha più anni di me!).
In realtà non voglio insistere su un dibattito vecchio anch’esso, come si può facilmente dimostrare. Ciò che mi colpisce è la permeabilità persino di persone intelligenti e colte ai discorsi correnti. Abbiamo infatti imparato che essi sono il vero volto di quello che una volta chiamavamo il “Potere”. Anche questo non è nulla di nuovo né una scoperta recente. Il Potere non coincide tanto con questo o quel partito politico, questa o quella lobby finanziaria, economica, militare, e così via. Il Potere è soprattutto quello dei “padroni del discorso”, di chi ha i mezzi non solo economici di “imporre una narrativa”.
Insomma, il Potere lo si può svelare osservando quali discorsi, quali argomenti, quali parole ed ora persino quale grammatica è obbligatorio usare. Il Potere è ciò che indirizza i pensieri, i talk-show, l’informazione, la cultura a parlare in un certo modo e di certe precise questioni e notizie e non di altre, perché le altre sono i cosiddetti “tabù”. D’altronde essere vecchi consente il vantaggio di aver fatto l’università in anni in cui veniva ancora insegnato Michel Foucault, tanto per dirne uno, prima che passasse di moda dopo la scoperta che forse svelava troppo in profondità i segreti del Potere.
Bene, guardiamolo il Potere oggi: ci fa parlare di diritti civili che coincidono quasi unicamente coi diritti sessuali, di genere; ci fa fare scialo della parola “identità”, che ancora una volta coincide con quella sessuale (gli omosessuali, i transessuali, i bisessuali… ma, chissà perché, molto meno gli eterosessuali), si impone la teoria gender. Assieme ai diritti individuali, però, non ci fa discutere dei doveri sociali con altrettanto vigore, anzi; i doveri verso la patria, poi, sono un vero tabù. Basta la parola.
Ma solo apparentemente di certe cose si può discutere; in realtà i padroni del discorso impongono anche le opinioni. Se io esprimo ad esempio il parere secondo cui è preferibile che due omosessuali non adottino un bambino, nel migliore dei casi sono definito “vecchio” ma, se chi mi ascolta non mi vuol bene, rischio di beccarmi del veterofascista, dell’oscurantista medievale, del sessista, razzista e chi più “ista” ha, più ne metta. Sarebbe troppo facile in fondo, dando una sbirciatina alla storia, verificare come le tirannie incomincino spesso dalle parole, dai discorsi, dalla grammatica: Orwell docet.
Sento già ronzare intorno alle mie orecchie l’ennesima accusa, stavolta di esagerare: l’asterisco prelude alla tirannia, possibile? Ai posteri l’ardua sentenza. Quello che però avverto fin d’ora è una sorta di asfissia, di respiro reso pesante dall’incedere dei nuovi discorsi che vanno a toccare perfino la grammatica: bisogna stare attenti a come si parla, come si scrive, come si articolano i suoni, a voce e per iscritto. Nelle settimane scorse per la presenza in un libro di testo di grammatica di una frase sull’obesità di una ragazza, l’editore è stato messo in croce, ha dovuto ritirare il libro con l’accusa di sessismo e perderci fior di quattrini; e recentemente lo scrittore Mauro Corona, che certo non è un esempio di savoir faire, è stato redarguito in trasmissione da Bianca Berlinguer per una sua battuta sul rossetto del ministro Azzolina (uso il maschile perché mi riferisco al ruolo, non alla persona, e ne vado fiero).
Così tanto in profondità penetra il Potere. Allora, alla fine, vorrei espormi in nome della libertà di opinione, di parola e di grammatica e affermare, a mio rischio e pericolo, che tutto questo mi sembra ridicolo e pericoloso insieme. Ma forse, per non rischiare denunce, meglio sarebbe che modificassi il mio pensiero, dicendo che tutt* quest* mi sembra ridicol* e pericolos* insieme.