“È facile dire a chi non sta bene ‘coraggio’, è facile dire a chi ha fame ‘coraggio’, a chi resta solo ‘coraggio’”. Così, sulle note di una malinconica melodia, e in quella lingua struggente e triste che è il dialetto pugliese, iniziava una canzone che un’amica aveva scritto, quando, un’estate alla fine degli anni 60, eravamo andati in uno sperduto paese del Sud a condividere quella povertà e quella emarginazione di cui tanto si parlava, ma che noi, liceali, figli della buona borghesia del Nord, non avevamo mai visto in faccia.
Anche oggi, e non solo al Sud, tanti non stanno bene, hanno fame, sono restati soli. C’è uno star male diffuso. Non solo sanitario, non solo economico, uno star male dell’anima. Scriveva recentemente De Rita sul Corriere della Sera: “l’impressione è di un popolo in trance, che non focalizza uomini e cose e che preferisce rintanarsi nel mondo sicuro del se stesso”. “Viviamo”, proseguiva, ”in una strisciante opaca incertezza. Pare che la gente abbia silenziosamente deciso di andare in letargo. Perché impegnarsi a esprimere vitalità se gli obiettivi da perseguire non sono chiari e/o dichiarati?”. E l’incertezza mina le basi di ogni possibile fiducia. Siamo in preda a una pericolosa epidemia di sfiducia. Recenti dati Ipsos dicono che il 64% degli italiani concorda con quanti affermano “non mi fido più di nessuno, né delle banche, né delle imprese , né degli imprenditori”. E, ancora, la recente crisi di governo viene giudicata inutile dal 66% degli italiani.
Proprio a questa condizione di incertezza si era rivolto Mario Draghi nel suo intervento del 18 agosto 2020 al Meeting di Rimini, lanciando però subito un’altra parola, a lui cara e consueta. Anzi non una parola, ma un atteggiamento, un’esperienza: il coraggio. Aveva perfino ricordato la preghiera di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore “il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare”. E ancora coniugando incertezza e coraggio, il Presidente aveva parlato del “coraggio che richiedono le decisioni specialmente quando non si conoscono con certezza tutte le loro conseguenze”.
È proprio l’incertezza che chiede coraggio, chiede di buttarsi senza sapere tutto, senza avere certezza su ogni fattore in gioco. Il tema del coraggio veramente non è nuovo per Mario Draghi. In quell’altro celebre intervento dell’ottobre 2019, quando in Cattolica a Milano gli era stata conferita la laurea honoris causa, aveva parlato del coraggio che occorre nel “momento della decisione”, aggiungendo che “vi sono situazioni in cui anche le migliori analisi non danno quella certezza che rende una decisione facile: la tentazione di non decidere è frequente. È in questo momento che il policy maker deve far leva sul coraggio”, perché, proseguiva “l’inazione compromette il mandato affidato”.
La tentazione di non decidere. Dante non ha paura di chiamare questo atteggiamento peccato. Peccato di ignavia, come quello che avevano commesso anche gli angeli “che non furon ribelli né fur fedeli a Dio”. Sono “l’anime triste di coloro che visser sanza infamia e sanza lodo”. Il disprezzo di Dante per questa schiera di anime è grande: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Essi sono gli “sciaurati che mai non fur vivi”. Neppure degni di essere considerati nella schiera degli uomini, appunto dei vivi. Eppure non avevano commesso nessuna azione particolarmente malvagia. Ma non avevano brandito la propria umanità. La paura aveva vinto. Non avevano avuto il coraggio di dire io, direbbe il titolo del Meeting 2021, riprendendo un frammento del Diario di Kierkegaard, “bisogna avere di nuovo il coraggio di dire ‘io’”. Ma, aggiungeva il filosofo danese, dire io implica “rivolgersi a un tu”. Ecco, forse è proprio questa la chiave del coraggio, non essere soli, affermare una relazione. Così terminava la canzone con cui abbiamo iniziato: “Di’, fratello, se ti dico coraggio è perché ti voglio bene. tu non sei solo, sto io con te”. Forse anche in politica per avere coraggio bisogna ritrovare dei legami.
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