Nel 1847 il cancelliere Metternich disse all’ambasciatore austriaco a Parigi: “La parola Italia è solo una denominazione geografica”. Quattordici anni dopo la denominazione geografica diventò la denominazione politica del nuovo Stato, nato dalla simbiosi tra italianità, unità e nazione.
Quanti italiani sanno che il 17 marzo è il giorno in cui 162 anni fa nacque il nostro Paese? È un aspetto ignorato per molto tempo, con il risultato che l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo che non festeggia il giorno della sua nascita, aspetto spesso considerato tristemente dall’emerito presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Festeggiamo la liberazione dal nazifascismo il 25 aprile e la nascita della Repubblica il 2 giugno, ma di rendere festa nazionale il 17 marzo, giorno in cui il Parlamento italiano riunito a Torino proclamò l’unità d’Italia, neanche a parlarne. Fu un’eccezione nel 2011, in occasione del 150° anniversario.
Secondo l’ex presidente del Consiglio Giovanni Spadolini la nascita del Regno d’Italia fu “la più grande e rivoluzionaria scoperta della nostra storia”. E niente forse è più opportuno del 17 marzo per riportare l’attenzione sul periodo più importante della nostra storia nazionale. La convinzione dell’esistenza di un’italianità millenaria, intesa come individualità storica, formata da tutte le popolazioni native della penisola nel susseguirsi delle generazioni, fu il presupposto comune di tutti i patrioti del Risorgimento per affermare il diritto degli italiani ad avere un proprio Stato unitario, indipendente e sovrano.
Non si può non ricordare il principale merito che in ciò ebbe la monarchia della real Casa Savoia; Indro Montanelli metteva in guardia da chi non volesse riconoscere il ruolo dei Savoia nel percorso che condusse all’unificazione, definendo costoro come dei truffatori. I Savoia, unici tra le monarchie presenti nella penisola, con un’intuizione politica compresero la trasformazione storica irreversibile che era in atto in Italia e anche in Europa, promuovendo e assecondando tutto ciò che portò all’unificazione dello Stato, che culminò poi nel lungo regno di Vittorio Emanuele II, padre della patria. È sotto di lui che si realizzò la piena unità istituzionale, politica ed etico-civile della nazione, oltre che territoriale.
L’importanza del Risorgimento era chiara alla classe dirigente fino al secondo dopoguerra. Purtroppo, nella seconda metà degli anni 60 l’influenza risorgimentale ha cominciato a scemare. Quella definizione di “bella poesia” che Benedetto Croce dava del Risorgimento si stava trasformando in una brutta prosa: con l’avvento del ’68 entrarono in circolazione sistemi di credenze e prospettive esistenzialistiche del tutto estranee alla cultura italiana, per non parlare della nascita di alcuni movimenti e partiti secessionisti durante gli anni 80.
Per tornare a considerare il Risorgimento un’impresa eccezionale bisogna che il 17 marzo non sia più una canonica celebrazione, bensì un’occasione per riflettere in maniera appropriata sui tanti fili che collegano quelli di ieri ai nostri giorni. Non dissipiamo tale eredità, con l’auspicio di veder realizzato quanto proclamato dal presidente del Senato nel suo discorso di insediamento lo scorso ottobre: assurgere a festa nazionale il giorno in cui si realizzò l’unità d’Italia.
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