La vita come memoria fedele a un fatto: questa è la cifra del pensiero di Liu Xiaobo (1955–2017). La strage di Piazza Tiananmen (1989) è stata per lo scrittore “una scheggia nella carne”, una provocazione, infitta per sempre e dolorante, appena mitigata e non consolata da una comunione cercata con le giovani vittime. La raccolta Elegie del Quattro Giugno, tradotta da N. Pesaro, per i tipi di Lantana editore (2013), è la testimonianza di quel contatto con gli studenti sempre vivo e impossibile da spegnere.
Infatti “la luce delle anime dei defunti trapassa le mura più alte e le sbarre/ penetra nel mio corpo/ scioglie i sassi dei torrenti profondi”. E il loro grido mai spento riecheggia nel cuore del poeta, fino a bruciare totalmente: “e se ardessi fino in fondo/ onorerei la mia promessa fino a diventare cenere”. Il loro sacrificio ricorda Van Gogh “suicidato dalla società” (Artaud), che “seminò il sole” e vinse “l’inferno e il paradiso”. Il suicidio della Rivoluzione portato avanti dagli uomini grigi del Pcc tesserati e capitalisti, meschini e altolocati, nazionalisti e globalisti è il dato evidente in atto e il risultato di un’ideologia di morte denunciata con coraggio dal grande intellettuale.
Liu Xiaobo, fine studioso della filosofia occidentale e di quella cinese, va di traverso alla finzione ideologica. Dal confronto con l’opera di Michel Foucault impara l’antica arte della parrēsia, del parlar franco: anche quando la battaglia è impari, anche quando il dispotismo è illimitato, anche quando il rischio personale è grave. E la sua riverenza per Kant si sofferma sulla seconda formula dell’imperativo categorico, diventando pratica di vita: attenzione a trattare gli altri e se stesso sempre come un fine e mai come un mezzo. Il suo potere senza potere, ammirato da Vaclav Havel, si esplicita nei Monologhi del giorno del giudizio (ed. it. a cura di V. Varriano, Mondadori 2011), scritti di fronte all’estremo con una firma che resta incisa nella storia delle idee.
Alla morale di Confucio e alla temperie neoconfuciana, sostenuta dalla propaganda del regime, dai “cani da caccia” del potere, preferisce la creatività di Zhuangzi e la sua ricerca gnoseologica. Al conformismo del comportamento dettato dalle massime confuciane, oppone la statura morale e la logica formale di Mozi e l’amor proprio di fronte al potere di Mencio. Ma la sua critica, grazie alla meditata ruminazione di Kant, Luther King, Lincoln, si estende anche al colonialismo e al rischio di considerare la propria cultura di provenienza una casa comoda, un “posto al sole”, che finisce per diventare trappola. La tianxia (lett. “sotto il cielo”) ossia il sinocentrismo e la cultura occidentale, basata sul razionalismo, l’onnipotenza della scienza, il denaro condividono un punto: fare a meno dell’Altro. “La cultura occidentale sta perdendo sempre più valore, la coscienza del pentimento è sempre meno viva, e la santità della religione è diventata un piacere come il rock ’n roll, e non un doloroso esame di coscienza”. La perdita del senso del peccato originale in Occidente, per lo scrittore, è una catastrofe in atto, che minimizza la realtà del male in tutta la sua portata.
Nella sua vibrante intensità, la scrittura di Liu Xiaobo richiama a tratti il famoso discorso di Solženicyn ad Harvard nel 1978. Eguali le censure, le rimozioni, le dimenticanze riguardanti il non violento dissidente cinese, premio Nobel per la pace nel 2010. La distratta disattenzione degli intellettuali occidentali nei confronti dei dissidenti sovietici allora e di quelli cinesi oggi ha un obiettivo: mira a tacer dell’io quasi fosse un onta, non solo a negare l’universo concentrazionario. C’è sempre un anestetico locale, infatti, che può attutire e ridurre la verità delle domande di giustizia e libertà del cuore: denaro, potere, fama. Ma il centro interiore dello scrittore resta indomabile, curiosamente invincibile: da Carta 08 (manifesto sottoscritto con altri intellettuali) alla morte da detenuto in un ospedale vigilato.
Liu Xiaobo fa parte, in effetti, di un gruppo di testimoni scomodi (Harry Wu, Liao Yiwu, Palden Gyatso, Wei Jingsheng, ecc.) che mettono in discussione il quietismo e l’opportunismo dominanti. E d’altro canto il nichilismo non è vinto da una dottrina o da una teoria, ma da una carne, da un corpo, da un cuore vivo. Nel testo Liu Xiaobo. Una voce per la libertà (Aletti editore), Cinzia Mupo e Paolo Ferrante danno voce, perciò, alla vita intima dello scrittore, homo vivens, ascoltando il suo grido e l’infinita tenerezza per la moglie Liu Xia, anch’ella perseguitata.
Traspare nell’esperienza dello scrittore, infine, un volto: quello di Gesù. In una poesia nei Monologhi scrive: “Io non ti conosco, Gesù/ il tuo corpo così scheletrico/ ogni costola così netta inorridisce lo sguardo/ la tua postura così atroce, inchiodato sulla croce”. A Gesù abbandonato e sofferente, con le spalle troppo anguste per reggere il peso del male di tutti i tempi e di tutti gli uomini, Liu Xiaobo pone il suo dolore e quello di un popolo: “Gesù mi riconosci? Un cinese dalla pelle gialla…”. Si presenta a una Presenza nella sua debole nudità per essere con Lui, diventare Lui.
Mentre Fung Yulan nella sua Storia della filosofia cinese diceva che “bisogna tacere dopo aver molto parlato”, criticando Wittgenstein, Liu Xiaobo ci invita a vedere cosa accade ora, cosa si imprime con forza negli occhi, in virtù di un’energia presente. Nel suo sguardo che oltrepassa il tempo della mediocrità asservita al regime restano presenti i giusti, coloro che, come i giovani di Tienanmen o come Lin Zhao, hanno scritto letteralmente e concretamente col sangue le loro vite e i loro testi.
Il dissidente aveva ben presente l’amato Nietzsche: “chi scrive in sangue e sentenze non vuole esser letto, ma imparato a memoria”.