Mario Lo Pinto, dopo aver raccontato la prima parte della sua vita in L’epoca mia sembra fatta di poche ore, recensito su queste pagine e definito “un romanzo di formazione”, ritorna ad incontrare i suoi lettori in un nuovo libro che ne è la continuazione e che prende le mosse dagli eventi che segnano il suo ingresso nella vita adulta, il matrimonio e l’inizio dell’attività professionale.



Il sottotitolo, Vita di un ciellino qualunque, introduce bene la narrazione. Sì, perché l’autore che parla di sé non è un eroe né un martire – almeno nell’accezione comune dei due termini –, non è un asceta e neanche un leader. È semplicemente un ragazzo del ‘53 che però ha speso la sua vita “non solo per mantenere e sostenere e custodire la sua famiglia”, come dice suor Rachele Paiusco nella bella prefazione, ma per vivere il cristianesimo nella sua persona e farlo rivivere negli ambiti in cui si è via via trovato.



Dopo l’entusiasmo dell’incontro da liceale con il movimento fondato da don Luigi Giussani, e dopo l’esperienza esaltante nella comunità di CL alla facoltà di agraria, la vita normale, dice Lo Pinto, tende a stendere una patina di polvere sulle cose. Eppure ci sono degli eventi che la eliminano, questa polvere, fino a fargli capire che “la felicità è una cosa dell’altro mondo che inizia in questo mondo” e “non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin da ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile” (Imre Kertész).



Tra questi eventi ci sono sicuramente la nuova condizione di genitore: insieme alla moglie Delia – che pur rimanendo leggermente in disparte appare come la colonna della coppia – avranno quattro figli. Ci sono poi gli imprevisti della professione, con vari cambiamenti di ruoli e di sedi, magari non sempre voluti ma sempre accettati in vista di una maggiore fecondità. Ma più degli altri, il fatto importante è il trasloco della famigliola a Legnano, anzi in un quartiere periferico di Legnano, dove vengono costruite delle villette vicine, unite da un prato/giardino comune. Man mano alcune di queste villette saranno abitate da famiglie appartenenti a Comunione e Liberazione e anche da una casa femminile di Memores Domini. Per Mario il salto è notevole: nato e vissuto a Milano “come un pesce nell’acqua fin da piccolo”, nel perimetro di Città Studi, si sente per così dire costretto all’esilio. Eppure in breve scopre il genius loci del posto, e insieme si accorge delle potenzialità della convivenza tra le famiglie vicine, che mettono in comune con semplicità tutta la vita quotidiana. Nasce così un’amicizia lieta, scandita da momenti più significativi come le feste e la liturgia domenicale. Tutto ciò coinvolge naturalmente anche i tanti bambini, figli naturali o in affido, i loro compagni e amici: “sperimentano la comunanza di sentire e di vivere che c’era tra le nostre famiglie”, le quali hanno lo stesso giudizio sulla vita e sul mondo.

A questo punto si capisce il titolo del libro che all’inizio appariva un po’ enigmatico: Una buona misura (Mimep-Docete, 2023). L’espressione è presa dal Vangelo di Luca (6,38): “Date e vi sarà dato, una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo” e sta ad indicare la ricompensa con la quale sarà gratificato chi tende a vivere secondo gli insegnamenti delle beatitudini. Cioè molto di più di quanto uno ha dato.

Resta un ultimo punto da chiarire. Perché l’autore ha voluto scrivere la sua storia e condividere le vicende che lo hanno reso quello che è? Da quale esigenza è stato spinto?

Poiché, secondo l’espressione di Massimo Tedoldi, dire è darsi, quindi accettare di comunicare il proprio sé più vero, rischiando il giudizio altrui, certo non è cosa facile né alla portata di tutti. A meno che il darsi non sia concepito come testimonianza capace di far intravvedere il grande – benché nascosto – protagonista della storia, il Mistero.

Infatti, “vi sono molte cose nascoste più grandi di queste: noi contempliamo solo una parte delle Sue opere” (Siracide 43,32).

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