“L’Italia è per me terra d’incanto,/ ch’amo ogni giorno veder splendere il sole”…
È solo alla morte del prozio (il famigerato William Byron, The Wicked Lord o anche The devil Byron), nel 1789, che George Gordon Byron diviene il sesto barone Byron di Rochdale. Non tarderà prima a entrare in possesso di un’eredità che, bene o male, gli permette di completare un’educazione culturale le cui istanze sono per lui prioritarie ed esigenti assai. Poi, un decennio dopo, a prender possesso del seggio alla Camera dei Lord e a partire per quel Grand Tour che allora non poteva non completare la sete d’avventure talora estreme (che George integrava con un pugilato ed un nuoto praticati ad alti livelli, ma certo eccentrici per l’epoca) e di ampia conoscenza del mondo, d’obbligo per ogni intellettuale e per ogni audace aristocratico.
Salpa con un amico da Falmouth il 2 luglio 1809 per Lisbona, poi visita alcune città della Spagna e prosegue per Malta, ove giunge il 19 agosto. Vi soggiorna circa un mese, prima di navigare alla volta dell’Epiro, toccato il 20 settembre. Quindi l’Albania e Atene, lungamente, ma con una significativa parentesi a Costantinopoli, ove il 3 maggio 1810 Byron attraversa a nuoto lo stretto dei Dardanelli. Rientrato in Inghilterra, pubblica i primi due canti del Childe Harold’s Pilgrimage, una sorta di guida poetica dei paesi visitati.
Il successo è straordinario, per le vivide evocazioni dei luoghi del Levante, per i versi appassionati e scorrevoli, il misto di buon senso inglese e di cosmopolita licenziosità: tutto fa enorme impressione sul gusto delle ladies e dei gentlemen dei salotti e dei clubs della Reggenza. Il successo del Childe Harold è tale, che tra il giugno 1813 e l’agosto 1814 Byron deve produrre un’ulteriore e cospicua mole di novelle orientali in versi, la cui fortuna sarà eccezionale.
Il ritorno in Inghilterra è burrascoso. I suoi atteggiamenti da deraciné e da tenebroso dandy gli alienano molte simpatie: gli scandali sessuali e un matrimonio forse di mero interesse con Annabella Milbanke, il crescente oltraggio al puritanesimo di una società già intrisa di un’etica prossima a quella vittoriana, fanno sì che Byron, separatosi dalla moglie, lasci l’ingrata patria – per sempre – il 25 aprile 1816. Sbarcherà in Belgio e da qui, costeggiando il Reno, arriverà a Ginevra. Nell’ottobre del 1816 è accolto con interesse a Milano – dove entra in contatto con Silvio Pellico, con Vincenzo Monti e con lo stesso Stendhal – ma vuol spingersi fino a Venezia, dove arriva nel novembre del 1816. Vi rimarrà per tre anni, rinverdendo i fasti libertini ch’erano stati nel Settecento di Giacomo Casanova, di Lorenzo da Ponte, di Rétif de la Bretonne.
Solo nell’aprile del 1817 scende a visitare Roma. E presenzia in Piazza del Popolo ad un’esecuzione capitale, affidata al celebre Mastro Titta, che gli lascia un’impressione violentissima. In una lettera al suo editore John Murray scrive: “Compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere della lama, lo schizzare del sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte, tutto nel suo insieme [era] più impressionante dell’agonia da cani inflitta alle vittime delle sentenze inglesi. […] Questa esecuzione mi ha messo addosso un tal tremito che quasi non riuscivo a tener in mano il binocolo da teatro”.
Milano è riguadagnata in fretta. E qui nell’aprile del 1819 Byron conosce la diciottenne Teresa Guiccioli, appena sposatasi con l’anziano ed omonimo conte. I due giovani fuggono insieme verso la fine del 1819, per fermarsi a Ravenna. Teresa esercita un’influenza senz’altro benefica sul poeta, che finalmente sembra adottare uno stile di vita più ordinato. Con lei compie lunghe cavalcate sulla battigia adriatica: “Dolce ora del tramonto! Nella solitudine della pineta, e il quieto lido che cinge l’antico borgo di Ravenna” (Don Juan). Nella città romagnola Byron scrive tre canti del Don Juan e poi Marino Faliero, Sardanapalus, The Two Foscari, Cain: a Mistery, The Prophecy of Dante. Soprattutto la foresta di Classe e la tomba di Dante gli evocano passi della Commedia e del Decameron. In una lettera all’amico Hobhouse si ferma a descrivere il sepolcro dell’Alighieri, molte citazioni dell’Inferno confluiscono in The Corsair e soprattutto la vita e la morte del Poeta lo fanno fremere d’emozione: e ne invoca il patrocinio: “O gran padre Alighieri, se dal ciel miri me tuo discepolo non indegno starmi, dal cor traendo profondi sospiri, prostrato innanzi a’ tuoi funerei marmi, piacciati, deh! propizio ai be’ desiri, d’un raggio di tua luce illuminarmi”.
Anni prima aveva voluto visitare anche la prigione di Torquato Tasso a Ferrara, ché l’autore della Gerusalemme assumeva al suo sguardo l’immagine di un acerrimo nemico di ogni forma di tirannide, in accordo con la tempestosa concezione byroniana del vero poeta quale figura eroica in tempi anti-eroici come quelli post-napoleonici. Gli saranno emuli, in tal lettura, almeno Foscolo e Leopardi, se non poi lo stesso Manzoni.
Tuttavia il fallimento dei moti insurrezionali del 1820-1821, cui aveva guardato più che con interesse, costringe Byron e Teresa a fuggire a Pisa. Qui, in palazzo Toscanelli, George raccoglie intorno a sé un gruppo di letterati e di artisti che annovera, oltre a Percy Bysshe Shelley, anche Edward Williams, Thomas Medwin, Edward John Trelawny, Leigh Hunt e John Taaffe. La morte di Shelley, annegato assieme all’amico Williams per un’improvvisa e violenta burrasca a dieci miglia da Viareggio, lo turba come null’altro prima. E fa allora vela con gli altri alla volta di Genova approdando a Lerici. Il 29 settembre sfida ancora a nuoto Trelawny, ma stavolta perde la gara, anche per colpa di un malessere che lo costringerà ad una dolente convalescenza in una lurida locanda.
Non vuole, non può fermarsi. Nel 1823 Byron aderisce all’associazione londinese a sostegno della guerra d’indipendenza greca contro l’Impero ottomano. Convinta Teresa a tornare a Ravenna, s’imbarca da Genova con il conte Gamba e Trelawny per Cefalonia, sbarcandovi nell’agosto del 1823. Dopo qualche mese, nel gennaio 1824 si trasferisce a Missolungi, dove muore, forse per le febbri reumatiche insorte dopo la gara di nuoto, il 19 aprile. Vicino a lui, incompiuto, il manoscritto del XVII canto del Don Juan. La salma, riportata in Inghilterra, viene tumulata nella chiesa di St. Mary Magdalene a Hucknall Torkard. Il funerale vede uno spettrale corteo di quarantasette carrozze listate a lutto ma vuote, col solo postiglione: ultima vendetta dell’aristocrazia inglese verso il poeta ribelle. Il suo cuore invece resta sepolto a Missolungi. Da duecento anni ad oggi.
L’influenza di George Gordon Byron sulla cultura europea è probabilmente incalcolabile e oggi non ancora terminata. Non solo per gli obbiettivi valori d’originalità e qualità letterarie. Era una concezione della vita come “grand geste” (eroico o scandaloso, non importava) ch’egli ha palesato agli occhi del mondo con coraggio, con spregiudicatezza, con genialità. Nulla dopo di lui è stato come prima di lui. Anche e soprattutto perché Byron ha fatto confluire nella sua opera una molteplicità di portati che son esito preclaro di un’attenzione vorace ad una molteplicità di fonti, di “sapienze” e “bellezze” diverse, in tal senso non eguagliata da altri al suo tempo.
È probabile che l’Italia in tutto ciò sia da considerarsi una matrice fondamentale: i poeti e gli scrittori (di Dante, Boccaccio e Tasso s’è detto), ma anche i paesaggi e le architetture, i luoghi e le memorie ad essi abbarbicate; come quelle vigne tra albero ed albero che gli paion velari scenici di melodrammi popolari. E la volontà d’opporre lo spensierato, caldo paese “ove fioriscono i limoni” alla fredda rigidità politica e morale britannica. E non ultimo – ma al fondo poco noto – quell’acetus italicus che Byron beve con infinito gusto da un imprevedibile riferimento qual è Carlo Goldoni (Beppo, a Venetian story del 1818) o da certa poesia burlesca italiana (si citano Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti o le Poesie e satire di Pietro Buratti).
Andrebbe forse ad infinitum anche solo uno schiuder di sipario sul seguito italiano di Byron: ovvero su ciò che non solo dai testi, ma dagli ideali del Lord è tracimato da noi in modo addirittura alluvionale. Non pensiamo solo a titoli ed argomenti poi divenuti teatro musicale celebre: da Le siège de Corinthe di Rossini al Corsaro e ai Due Foscari di Verdi, dalle due Parisine (Donizetti e Mascagni) a Marino Faliero di Donizetti. Ma anche al germe ribelle e “maudit” inoculato direttamente nella cultura e nell’ideologia del primo cinquantennio dell’Ottocento: e poi nel tempo pandemico per un agone affollato di penne diverse per qualità e rango, ma importanti e protratte su un arco che va da Tommaso Grossi a Carducci e Boito, da Gabriele D’Annunzio a Carmelo Bene. O indirettamente, ma non debolmente, attraverso il byronismo francese. La bataille d’Hernani di Victor Hugo (con tutto quel che ne è seguito) non sarebbe forse esistita e non si sarebbe popolarizzata senza il precedente di Byron.
Sì che molti e vari Romanticismi (appunto precipuo il nostro) di lui son prole numerosa e agitata, più di quella poco vitale ch’egli ebbe da amiche e amanti e mogli. Eppur d’irrinunciabile valore e d’irresistibile fascino nella storia della cultura e della società.
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