Nella notte italiana tra lunedì e martedì il senato Usa ha confermato Amy Coney Barrett alla carica di giudice della Corte suprema, quinta donna nella storia a ricoprire quest’incarico. La conferma della giudice nominata da Donald Trump è avvenuta con il voto favorevole di 52 su 53 senatori repubblicani e con il voto contrario di tutti i senatori democratici. Conseguenza di questa nomina è una solida maggioranza conservatrice nella suprema corte americana, dato che attualmente 6 giudici su 9 sono stati nominati da presidenti repubblicani, di questi 3 da Trump. L’esito del voto è segno della profonda spaccatura politica e culturale propria dell’America in questi anni: spesso in passato infatti i giudici erano stati confermati da ampie e trasversali maggioranze politiche. La rabbia e la delusione hanno persino portato molti democratici, tra cui la giovane deputata newyorkese Alexandria Ocasio-Cortez a proporre, in caso di vittoria di Biden, di aumentare il numero di giudici della Corte Suprema, in modo tale da raggiungere una maggioranza liberal.



La professoressa Barrett è stata sottoposta, in diretta streaming sui maggiori media americani, ad un lungo e attento esame da parte dello Judiciary committee con domande che spaziavano dalle dottrine giuridiche alle sentenze più importanti della Corte suprema e con richieste di spiegazioni su sentenze o articoli da lei scritti, alla sua opinione in merito a fatti di cronaca o a questioni politiche aperte. Barrett si è presentata al Senato accompagnata dalla famiglia (7 figli di cui due adottati) e ha risposto sempre in maniera diretta, pacata e ben motivata. È anche riuscita a strappare un sorriso di ammirazione a tutti quando è stato fatto notare che per sostenere l’audizione non ha avuto bisogno di note, né di prendere appunti.



Molto atteso era il momento in cui Kamala Harris, senatrice californiana, campionessa dell’ala liberal del partito democratico e candidata alla vicepresidenza con Biden, ha potuto interrogare Barrett. Forse cosciente che l’opinione pubblica non avrebbe apprezzato attacchi diretti, soprattutto se legati alla fede cattolica della Barrett, Harris ha utilizzato il suo spazio per lunghi monologhi sull’importanza dell’Affordable Care Act (la riforma Obama della sanità), del diritto all’aborto e delle norme antidiscriminazione, echeggiando gli argomenti già usati da altri senatori democratici e dando pochissimo tempo alla Barrett per rispondere. Nel complesso è sembrata molto più interessata alla campagna elettorale in corso (non si è nemmeno presentata in commissione preferendo intervenire a distanza) che alle argomentazioni giuridiche proposte dalla Barrett.



Amy Coney Barrett ha evitato di entrare nel merito di casi che potrebbero essere affrontati dalla Corte nei prossimi anni e, alle continue insistenze dei senatori democratici sulle sue opinioni circa questioni politiche, ha risposto “io non seguo la legge di Amy. Applicherò la Costituzione senza paura e senza favoritismi”.

La giudice Barrett appartiene ad una corrente di giuristi chiamata “originalisti” che lei stessa aiuta a definire con queste parole: “io interpreto la Costituzione come una legge e un testo come un testo: ritengo che esso debba avere il significato che gli è stato attribuito da chi lo ha scritto e ratificato (…) il significato (della costituzione) non cambia nel tempo e non è mia facoltà aggiornarlo o infondervi le mie visioni personali”. Si tratta di una dottrina particolarmente invisa alla sinistra liberal, che ha spesso utilizzato le corti federali e la Corte suprema per introdurre, con interpretazioni estensive della Costituzione, alcuni dei cosiddetti nuovi diritti (come ad esempio il diritto all’aborto, sancito da Roe vs Wade nel 1973 o il matrimonio omosessuale con Obergefell vs Hodges nel 2015). Una maggioranza originalista alla Corte suprema americana potrebbe porre un freno alla definizione di nuovi diritti per via giurisprudenziale e influenzare in tal senso l’intera giurisprudenza occidentale.

Particolarmente importante può essere infine il ruolo di Coney Barrett in alcuni casi in materia di libertà religiosa che la Corte suprema si troverà a breve a dover trattare, in particolare quello di un’associazione cristiana di Philadelphia che si occupa di bimbi in affido a rischio chiusura, poiché si rifiuta di lavorare con coppie omosessuali. Già in passato Amy Coney Barrett ha sostenuto che “la libertà di espressione collegata all’esercizio della religione ha una posizione privilegiata alla luce del primo emendamento”. Sarà interessante vedere fino a che punto la Corte si spingerà nel difendere questo principio nelle diverse sfide che la modernità pone alla libertà religiosa.