Forse qualcuno ricorderà L’orso di pelouche, un (brutto) film di una trentina d’anni fa, diretto da Jacques Deray e interpretato da Alain Delon e Francesca Dellera, oltre che da una manciata di validi attori come Paolo Bonacelli, Franco Interlenghi, Martine Brochard, Claudia Pandolfi, tutti coinvolti in una pellicola dagli esiti altalenanti, tratta da L’orsacchiotto di Georges Simenon. E dunque, dimenticate il film e immergetevi nel romanzo, perché Simenon è uno dei pochissimi autori (un altro è Zweig, e un altro ancora Stendhal) che non delude mai, specialmente quando costruisce tragedie come queste, drammi che sfociano in un finale terribile e potente, come nelle ultime righe del Testamento Donadieu, uno degli apici della sua narrativa.



L’orsacchiotto (Adelphi, Milano 2023), scritto nel 1960, ci presenta, come spesso accade nei romanzi di Simenon, la storia di un uomo arrivato, il professor Jean Chabot: un ginecologo affermato, comproprietario di una clinica privata, responsabile della maternità di Port-Royal, con un bell’appartamento di dodici stanze al Bois de Boulogne, con una bella moglie, proveniente da una famiglia molto ricca, una bella famiglia, e con una segretaria-amante, Viviane, efficiente e che gli organizza le giornate, oltre a togliergli dalle spalle tutte le rogne.



Insomma, una vita invidiabile e di successo, almeno apparentemente. Ma il dottor Chabot, come spesso accade nell’esistenza assestata di tanti protagonisti dei romanzi di Simenon, inizia ad avvertire una crepa in questa cornice perfetta: un vuoto di senso pauroso, che avanza come una marea insidiosa e inarrestabile: “Basta, non era più possibile. Non sapeva precisamente che cosa, ma sentiva che non era più possibile. Niente aveva il medesimo senso per lui e per loro e si chiedeva come avesse fatto a reggere così a lungo.

La cosa peggiore è che sospettava che avessero ragione gli altri, soprattutto sua madre (…) A forza di lavorare, era diventato qualcuno, come diceva lei, e questo avrebbe dovuto dargli sicurezza. In square du Croisic guadagnava abbastanza per vivere discretamente con la sua famiglia. Se non si fosse lanciato nell’avventura della clinica, avrebbe continuato a mandare articoli alle riviste di medicina e avrebbe terminato quel trattato di ostetricia che i colleghi gli consigliavano da tempo di scrivere e che aveva a malapena cominciato. Era lui, in definitiva, ad aver mentito. A tutti. Con menzogne diverse per ciascuno. Recitando ruoli diversi a seconda dei contesti”.



Guardando alla sua esistenza dall’interno, insomma, a Chabot sembra di essere tutto fuorché un uomo di successo, anzi: gli sembra che fra lui e gli altri esista un muro, o meglio, una lastra di vetro, trasparente, ma insuperabile e infrangibile; e non è solo perché a casa Chabot dorme da mesi separato dalla moglie, in una stanzetta angusta, arredata con un lettino di ferro da ospedale (ufficialmente, perché il suo lavoro non ha orari, e la moglie verrebbe svegliata dagli andirivieni notturni di Jean), o perché i figli sono ormai degli estranei, per giunta piuttosto deludenti sul versante degli studi. No, il senso di estraneità del dottor Chabot, oggi diremmo “la sindrome dell’impostore” che lo attanaglia, ha radici lontane: affonda forse in una infanzia trascorsa in una casa triste, con un padre invalido, un vinto, che, dopo una delusione lavorativa pesante, si è lasciato andare? O da che cosa d’altro?

Come che sia, uno dei pochi momenti autentici della vita di Jean sembra essere stato l’incontro furtivo con una giovanissima inserviente alsaziana, della clinica, che gli era parsa “qualcosa di tenero e sorridente come un orsacchiotto nel letto di un bambino”; un gesto irrazionale, gratuito, certo moralmente biasimevole… e dalle conseguenze non da poco. Ma da queste conseguenze lo libera la sua segretaria, Viviane, che prima tiene lontana per settimane la ragazza da Chabot, con il quale ella cerca un colloquio, e poi la fa licenziare: gelosia? Malinteso senso del possesso verso un uomo che le ha costruito una carriera, ma che ella stessa tradisce con un giovane specializzando ungherese, tanto brillante quanto squattrinato? Chabot viene troppo tardi a sapere che la giovanissima inserviente si è suicidata, gettandosi nella Senna; e che era incinta.

Ben presto, un giovane, il fidanzato o forse il fratello della giovane, riesce a risalire a lui, e lascia sotto il tergicristallo dell’auto del medico una serie di bigliettini minatori, con scritte solo due parole: “Ti ucciderò”. Ma il giovane non può sapere che ormai Chabot non ha paura di morire, non ha paura di lasciare una vita che gli sembra finta e in cui egli procede come spinto dalla forza d’inerzia. E così, dopo un colloquio assai poco risolutivo con il compagno di studi Barnacle, specializzato in psichiatria, un uomo molto meno di successo di Chabot, ma, forse, oscuramente più equilibrato, il grande luminare dell’ostetricia decide di recarsi a casa di Viviane. Non ha un’idea precisa di che cosa farà, sa solo che compirà un atto che scompaginerà per sempre quell’esistenza così apparentemente ordinata e così insostenibile. E allora, davvero, sarà finita. E Chabot potrà dormire, forse, paradossalmente, sereno.

 

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