La città di Plzeň, in Repubblica Ceca, ospita un giardino di meditazione dedicato alle “vittime di ogni male”. Dietro la sua realizzazione c’è la straordinaria figura dell’ex tenente di artiglieria Luboš Hruška, un ateo convinto che nella persecuzione e nei lager del regime trovò la fede e il senso della propria vita. Fino ad arrivare al perdono dei propri persecutori.



La storia di Luboš Hruška, nato a Plzeň nel 1927 in una famiglia in cui si respirava l’attaccamento alle idee di Masaryk e un ateismo convinto, non è diversa da quella di tanti altri che sarebbero finiti nel tritacarne del regime comunista cecoslovacco; eppure offre un grandissimo spunto di riflessione, di vitale importanza nel ricordare in questi giorni il trentennale della caduta dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale.



Laureato all’accademia militare cui si era iscritto senza troppa convinzione, seguendo un desiderio del padre, Hruška sarebbe finito ben presto tra le grinfie del crudele apparato di repressione del regime comunista cecoslovacco, che negli anni 50 era ai massimi livelli di spietatezza e durezza.

Come per diversi altri militari di carriera di quel periodo, delusi dalla piega che la situazione aveva preso, sarà un tentativo fallito di fuga oltre confine a portare all’arresto del giovane Luboš. E se il primo contatto con la prigionia non lasciava intendere appieno la spietatezza di cui il regime era capace, non dovette passare molto tempo prima che Hruška si rendesse conto del tritacarne in cui era realmente finito. A seguito del suo primo trasferimento nel carcere di Pankrac, Hruška si trova in cella con un ex esponente della Snb (Sbor Národní Bezpečnosti, ovvero Corpo di sicurezza nazionale). Quest’ultimo, sempre amichevole, pare un po’ troppo curioso e Hruška si convince del fatto che dovesse essere un informatore del regime, messo là per strappargli informazioni incriminanti. Fino a quando, una notte, il suo compagno di cella non viene portato via per poi essere riportato in condizioni pietose: pieno di lividi, dolorante, con le ossa rotte. La paura inizia a prendere il sopravvento.



Poco dopo sarebbe arrivato il processo, con la condanna a 18 anni di carcere duro, la cancellazione dei diritti civili e una multa di 300mila corone cecoslovacche (somma decisamente ingente). Sarebbe stato un semplice incontro a far prendere alla vita di Luboš Hruška, ateo convinto, una direzione totalmente inaspettata, che avrebbe portato un grande dono alla città di Plzeň (e all’umanità intera).

“Mi portarono in una cella di transito dopo il processo. (…) Mi ritrovai tra decine di altri che come me erano stati appena condannati. Sapevo di avere evitato la pena di morte (che era stata richiesta dal procuratore, ndr) ma a parte questo non avevo idea di cosa mi aspettasse. A quel punto mi ritrovai davanti un piccolo uomo vestito con un abito marrone, cinto da una corda bianca, con un taglio di capelli circolare. Sorridendo, a braccia aperte e con il cuore in mano mi diede il benvenuto. Era padre Ondrej, al secolo Karel Frgal, rettore del convento dei frati minori francescani di Sokolov. Era stato condannato, poco prima di me, a quindici anni di carcere duro per alto tradimento e spionaggio. Solo più tardi compresi che quello fu il momento in cui per la prima volta incontrai Cristo. Questo avrebbe influenzato il resto della mia vita”.

Padre Ondrej era la guida spirituale di tutto quel gruppo, che di lì a poco sarebbe stato trasferito altrove. Quella sera stessa tutti insieme pregarono il Padre Nostro. Non solo i prigionieri politici: anche gli altri criminali comuni (tra loro tre condannati per omicidio).

Il percorso di Luboš Hruška però avrebbe visto ancora innumerevoli ostacoli. Sarebbe stato caratterizzato da terribili sofferenze fisiche. Nel corso della sua lunga vita da prigioniero del regime avrebbe sperimentato la durezza del carcere di Leopoldov, dove i detenuti non potevano né sedersi né sdraiarsi, ma solo camminare continuamente avanti e indietro nella cella, con la luce accesa 24 ore su 24. Fu brutalmente preso a bastonate nel carcere di Borec dal sadico Václav Brabec, che gli causò danni permanenti alla schiena e ai reni. Ma Hruška era deciso a non dare soddisfazione al suo persecutore, e sopportò i colpi piangendo in silenzio, pensando “puoi anche ammazzarmi, ma non ti darò la soddisfazione di gridare”. Le parole di Brabec, prima di iniziare a colpirlo, spiegano meglio di mille trattati di psicologia quanto deviato fosse quel regime e quanto accecati dall’odio fossero i suoi servitori: “Questo per farti ricordare che non devi più fare quello che hai fatto”.

A Leopoldov però la vita di Luboš Hruška svolta definitivamente. Nonostante la durezza del trattamento, nonostante l’orrore cui assisteva quotidianamente, un nuovo incontro scuote gli ultimi dubbi di un ex ateo. Hruška conosce František Silhan, provinciale dei gesuiti, e gli chiede di battezzarlo. Da quel momento il gesuita prende sul serio il compito e passa ogni momento libero di ogni giorno a spiegare al proprio “catecumeno” la fede, la Chiesa, il Vangelo e Gesù Cristo. Fino a quando, davanti all’imminente separazione, Silhan propone a Hruška un “battesimo lampo”, che ha luogo appunto nella prigione di Leopoldov. È a questo punto che Luboš giura di realizzare un “giardino per la meditazione e la guarigione dell’anima”, se dovesse farcela a uscire vivo di prigione.

Nel 1960, finalmente libero, Hruška non esita e si mette subito al lavoro, incurante delle difficoltà che facevano parte della normalità per qualunque ex prigioniero politico che si dovesse reinserire nella società. Con il passare del tempo l’idea del giardino di meditazione iniziò a mutare parzialmente: si decise a costruirvi una Via Crucis, e a dedicarlo alle “vittime di ogni male” (non solo quindi del comunismo). Fino a quando Luboš Hruška non giunse a un punto di svolta, chiamandolo il “giardino del perdono e della riconciliazione”. Sarà completato dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989, mentre il suo creatore veniva insignito di svariate onorificenze, tra cui l’ordine di San Silvestro papa, conferitogli da San Giovanni Paolo II nel 2002.

Nel bellissimo libro-intervista che racconta la storia della sua vita, Hruška illustra un episodio fondamentale per comprendere la questione del perdono relativa al regime che lo aveva barbaramente maltrattato:

“Una volta venne in visita al Giardino una scolaresca di ragazzine sedicenni di una scuola per parrucchiere. Lo staff del Giardino, prima di una mia presentazione, mi disse di aspettarmi che le ragazze probabilmente non sarebbero state molto interessate al mio discorso. Dissi alle ragazze che se non gli interessava ascoltare, avrebbero potuto tranquillamente andare a divertirsi con le altalene nel giardino. Nessuna si allontanò. Allora iniziai a spiegare le motivazioni per cui esisteva il giardino, e come attraverso la sofferenza e il dolore arrivai alla fede. E a quel punto restai meravigliato dalla loro reazione. Smisero di fare baccano e iniziarono a prestare più attenzione. E iniziarono ad arrivare domande che non mi sarei mai aspettato. ‘Signor Hruška… E lei li ha perdonati?’ Questa è una domanda che fa capire chiaramente che quella ragazza era attenta, e ci aveva ragionato. ‘Ha dovuto soffrire tutto quell’orrore, e questo è un giardino dedicato al perdono e alla riconciliazione, perché?!’ Naturalmente tutti noi prigionieri [politici] odiavamo i comunisti (…) Quando a Leopoldov assisti a come uccidevano gente innocente, prendendo a un prigioniero il berretto e lanciandolo verso il recinto di filo spinato dicendo ‘Vai a prenderlo!’ solo per poi sparargli giustificandosi dicendo ‘aperto il fuoco su un fuggiasco!’ non puoi certo amare chi ti massacra di bastonate come se si fosse nel medioevo solo perché hai osato chiamare la guardia con il proprio nome. È naturale che ci sia odio. Ma quell’odio finisce con il deformare enormemente la persona. Una volta liberato, ho dedicato centinaia di ore al mio giardino. Ho avuto tempo per pensare, pregare, parlare con Cristo. Questo mi ha portato a trarre nuove conclusioni. Ci ho messo dieci anni a liberarmi dell’odio. Ma quando ci sono riuscito, che ci crediate o no, ho sentito una forte sensazione di liberazione dell’anima. Mi sono sentito come rinato”.

Oggi, trent’anni dopo la caduta di quel regime, la forza del messaggio del tenente Luboš Hruška sembra perdersi nel caos di avvenimenti che minacciano di riportare l’Europa in un buio ideologico che sembrava definitivamente superato. Ma nel ricordare le grandi vittorie di libertà del 1989, oggi, è nostro dovere riscoprire questo straordinario uomo e il suo semplice quanto forte messaggio.