La buona nascita non la si può stabile a priori. Lo è – per ricordare il futuro anteriore, una semplice e bella regola della grammatica italiana – solo se lo sarà stata. Altrimenti converrà rinascere. Anche più volte se necessario. Ovvero tutte le volte che serviranno per correggere o perfezionare la prima. Ecco il segreto del fascino della lunga vita di Luciana Frassati Gawronska (1902-2007) così come ce la svela l’appassionato e dovizioso saggio di Marina Valensise La temeraria. Luciana Frassati Gawronska, un romanzo del Novecento (Marsilio 2019).
Sorella del beato Piergiorgio (1901-1925), Luciana era nata in una delle migliori famiglie dell’alta borghesia italiana, nella sua variante piemontese. Il padre Alfredo era il mitico fondatore, direttore e proprietario della Stampa, senatore del Regno e ambasciatore a Berlino, con mandato fiduciario da parte di Giolitti, fino all’avvento del fascismo. La madre, l’aristocratica Adelaide Ametis, era una donna a suo modo moderna, sportiva, pittrice, eccentrica, poco gratificata dalla vita domestica – l’unica prevista per una donna della sua epoca – ancor meno da quella coniugale con l’ambizioso e potente marito.
La strada che la famiglia predispose per Luciana era quella standard per una giovane del suo rango: un pizzico di religione, cultura e sport quanto basta, vita mondana e relazioni altolocate destinate a confluire in un importante matrimonio. La brillante carriera del padre renderà il suo percorso formativo ancor più luccicante e sfarzoso, aggiungendovi la dimensione internazionale e cosmopolita. La giovane Frassati la percorrerà tutta d’un soffio, senza incertezze (o quasi) fino al drammatico momento in cui dovette prendere atto che era una strada interrotta.
Ad interromperla era stata la storia d’Europa della prima metà del secolo. Non tanto l’avventura coloniale italiana, con l’esito negativo della guerra di Libia (sponsorizzata dal padre dalle pagine della Stampa) e neppure “l’inutile massacro” della Grande Guerra. Due importanti eventi che in ogni caso non ebbero un impatto negativo sulla famiglia Frassati. In particolare il senatore – neutralista notorio – che aveva studiato legge ad Heidelberg ed era un estimatore della cultura tedesca, si propose con successo a Giolitti come artefice della ricostruzione dei rapporti tra Italia e Germania.
Nefasti furono invece i decenni successivi. Antifascista dichiarato, Alfredo Frassati perdette tutto con l’avvento di Mussolini, mentre il perverso accordo tra il Terzo Reich e l’Urss travolse la neonata Repubblica Polacca e con essa le sorti della nuova famiglia di Luciana, sposatasi nel frattempo con un giovane polacco conosciuto a Berlino, il diplomatico di carriera Jan Gawronski. Al suo fianco era stata a Varsavia, poi ambasciatrice a Istanbul e a Vienna, aveva offerto ricevimenti, intrattenuto ministri e capi di Stato, ballato con Mustafa Kemal (Atatürk) e con Ribbentrop; era diventata intima di intellettuali e artisti.
Melomane molto competente, Luciana Frassati poteva vantare una robusta amicizia con Arturo Toscanini (antifascista della prima ora) che a Vienna preferiva le attenzioni della moglie italiana dell’ambasciatore polacco anziché l’ospitalità ufficiale dell’ambasciata italiana. Per Furtwängler – l’altra stella del firmamento musicale dell’epoca, privo però del coraggio politico necessario a smarcarsi dal nazismo – il fascino di Luciana fu addirittura fatale. Le sue lettere sono strabordanti di lusinghe, da lui Luciana viene elevata al rango di musa, ruolo che lei accetta ed accoglie come lenitivo delle difficoltà coniugali, che non tardarono ad affacciarsi, e come servizio da rendere alla musica.
All’occorrenza Luciana sapeva anche flirtare, pienamente consapevole della sua bellezza e del suo fascino. Dote quest’ultima che talvolta divertiva e talvolta dispiaceva a Jan. Ma tutto questo finì senza appello. Dopo l’Anschluss, Gawronski rimase senza incarichi e a Luciana, privata ormai del copione predisposto da altri, non resterà che scrivere (e riscrivere) la partitura della sua vita. Dalla fuga da Varsavia nel 1939 sotto i bombardamenti degli Stukas, con quattro dei sei figli al seguito, fino alla morte che la raggiunse ultracentenaria nel 2007, mettendo fine alle sue molte rinascite.
Marina Valensise ne dà conto al lettore trascinandolo al seguito del suo stesso interesse per questa donna “alla ricerca della propria voce”. Un interesse imprevisto nato da tre anni di intenso lavoro sulla documentazione di prima mano offertale dai figli di Luciana, come l’autrice ricorda in una bella intervista rilasciata al Foglio il 16 settembre 2019. In una ridda di colpi di scena, tra atti temerari, torture scampate per un pelo, amicizie (e inimicizie) con i principali protagonisti della vita culturale e politica del suo tempo, tra difficoltà e ostilità vissute anche da parte di chi le era più vicino, Luciana scoprirà la sua vocazione di scrittrice e poetessa.
I sui lavori più noti sono i volumi biografici dedicati a ricostruire la figura del fratello Piergiorgio. Fu un lavoro ingente, asciutto, preciso, culminato nella raccolta di circa mille testimonianze dirette, “una cronaca semplice, esatta, accorta”, come scrisse Papini, con la quale Luciana risarciva l’amato fratello, così diverso da lei ma a lei così legato, delle incomprensioni e dell’indifferenza patite in famiglia per la sua vocazione. “Ho dovuto lottare con tutti e con me stessa per stampare quel libro”. In particolare, lo scontro col padre fu titanico e non conobbe pacificazione alcuna, perché l’anziano senatore non poteva tollerare che il velo della riservatezza famigliare venisse sollevato – a suo dire – solo per soddisfare le ambizioni editoriali della figlia. Anche in questo caso Luciana fu inarrestabile. Il suo lavoro, il suo coraggio e la sua fede nel raggiungimento anche delle mete più difficili, conquistarono la stima del cardinale di Milano Giovanni Battista Montini, che divenuto papa Paolo VI fu l’artefice della riapertura del processo di beatificazione, fermo ormai dal 1935.
La beatificazione come noto fu opera del papa polacco, che estimatore della figura di Piergiorgio, lo eleverà all’onore degli altari nel maggio 1990. Piergiorgio Frassati era morto a 24 anni nel 1925 per una poliomielite fulminante. In famiglia non ebbe vita facile – né durante l’infanzia né in seguito – ma il risarcimento (postumo) ottenuto attraverso l’intraprendenza e la dedizione di Luciana si può considerare completo sotto ogni aspetto. La sua opera risarcitoria appare a tal punto capiente da eccedere il saldo del debito famigliare e configurare nei confronti del Beato Piergiorgio un considerevole credito. Una sorta di tesoretto da spendersi a vantaggio dei posteri: dei suoi stessi estimatori, ma anche di quelli di Luciana. Gente magari lontana dal pensiero di una santità canonicamente considerata, ma come lei interessati a mantenere salda la fede nel raggiungimento delle proprie mete. Quali siano state le difficoltà incontrate in vita.