“Sognare restando con i piedi per terra”: così Lucio Rossi descrive “l’esperienza assolutamente affascinante” vissuta come fisico coinvolto in prima linea nelle ricerche presso l’acceleratore di particelle LHC (Large Hadron Collider) del Cern di Ginevra. Un’esperienza raccontata nel libro La conoscenza è un’avventura (Bietti, 2022) curato da Ludovica Manusardi Carlesi con un’introduzione di Ugo Amaldi. Il racconto inizia dalle vicende di un giovane fisico che, nei primi anni 80, stava per indirizzare la sua ricerca nel campo della fusione termonucleare e in particolare della fisica dei plasmi e che poi, anche su suggerimento dei suoi maestri, ha colto la nuova opportunità che si apriva con il progetto del ciclotrone superconduttore e ha preso la strada per Ginevra, dove sarebbe diventato il numero uno nella progettazione e gestione dei magneti superconduttori.



È grazie a questi magneti, dislocati lungo i 27 km del tunnel sotterraneo di LHC, che le particelle possono essere accelerate fino a velocità prossime a quella della luce per poi scontrarsi dando vita a un gran numero di altre particelle che vivono un tempo brevissimo ma sufficiente per consentirci di indagare la natura intima della materia e delle forze che la governano. È così che si arriva ad esplorare il zeptospazio, cioè il microcosmo alle dimensioni di miliardi di miliardi di millimetro, molto al di sotto di quelle che ormai sono note come nanotecnologie ma molto vicino alle condizioni presenti ai primordi dell’universo, poco dopo il Big Bang.



Gli acceleratori, secondo un paragone caro a Lucio Rossi, sono dei potenti supermicroscopi ma sono anche delle vere macchine del tempo: “strumenti pensati per superare i nostri limiti, nuove caravelle pronte a salpare per territori sconosciuti”. A volte capita che scoprano fenomeni che confermano le congetture teoriche più audaci e arrivino a cambiare il modo con cui vediamo il mondo, come è accaduto nel 2012 con l’evidenza sperimentale del bosone di Higgs e l’apertura di nuove prospettive sulla struttura e sul comportamento della materia. Lucio Rossi era al Cern in quegli anni e ha trepidato, ha atteso e poi ha gioito insieme a tutti gli altri fisici e ingegneri che hanno preparato, condotto e analizzato gli esperimenti Atlas e Cms: da questi è arrivata la conferma del modello teorizzato cinquant’anni prima da Robert Broute, François Eglert e Peter Higgs, dove si prevedeva l’esistenza di uno speciale tipo di particella, un bosone appunto, incaricato di dare massa a tutte le altre particelle.



Nel racconto di quell’avventura – paradigmatica di ogni conoscenza, non solo scientifica – Rossi non riesce a nascondere la passione e l’entusiasmo che ha mosso i suoi passi fin dai primi momenti presso il Lasa (Laboratorio Acceleratori e Superconduttività Applicata) dell’Infn di Milano e poi al Cern negli anni ruggenti tra il 2001 e il momento del trionfo che porterà Eglert e Higgs al premio Nobel nel 2013.

Come pure fa parte di quella dimensione avventurosa la curiosità e la spinta a guardare avanti, ad andare oltre. Mentre i fisici “particellari” di Atlas e Cms erano impegnati ad analizzare i dati delle collisioni per poter confermare il modello di Higgs, un “macchinista” come Rossi (cioè uno concentrato sulla performance della macchina acceleratrice) era già proiettato sul prossimo step: “già pensavo a un upgrade della macchina capace di raddoppiare e forse più la vita di LHC in termini di tempo e di potenza utile, con una spesa moderata: 30% del costo di LHC stesso. Questo progetto, chiamato High Luminosity Lhc e poi con il fortunato diminutivo HiLumi, ha tre gambe: promette di fare più fisica, di spingere la tecnologia ben oltre il livello di Lhc e, last but not least, terrà insieme la comunità almeno fino al 2040, dando il tempo al Cern e ai ricercatori di preparare il futuro acceleratore post-Lhc”.

Un cammino di ricerca fatto di sfide raccolte personalmente ma anche di collaborazione e di riconoscimento della genialità altrui; fatto di superamento dei limiti ma anche di accettazione delle proprie incapacità e di riconoscimento degli errori: tutto il contrario di quell’immagine stereotipata dello scienziato invincibile e infallibile che avanza di scoperta in scoperta. Rossi racconta, senza reticenze e senza minimizzare, quel “venerdì nero” (19 settembre 2008) pochi giorni dopo la trionfale accensione di LHC, quando il presentarsi di un evento anomalo e inspiegabile preannunciava il verificarsi di un guasto a un settore dell’acceleratore e costringeva a fermare tutto rinviando “la scoperta”. Rossi, responsabile ultimo del funzionamento della “macchina”, non si butta nella caccia al colpevole; anzi, nella conferenza stampa internazionale subito convocata, ammette le carenza di chi doveva controllare e si assume ogni responsabilità; col risultato di rimotivare tutto il suo team e di scoprire dopo pochi mesi l’origine del difetto e i possibili rimedi. “L’essermi assunto la responsabilità dell’incidente ha catalizzato una grande energia alla base della collaborazione e, quindi, dell’aiuto reciproco: l’errore, in definitiva, si è trasformato in un’indicazione, un suggerimento su come far meglio, sulla strada da intraprendere”.

Una grande lezione di umanità. Che non resta un momento isolato tra le pagine di un libro che descrive la ricerca scientifica come un’esperienza che nasce dalla curiosità, “ma la curiosità in sé non basta; occorre che si trasformi in una domanda”, che si trovino le modalità più adeguate per “interrogare la realtà”. Senza sottrarsi alle domande più profonde e personali. Rossi racconta come è arrivato a interrogarsi “sul valore della ricerca scientifica in sé; ciò che significa per me, per la mia esistenza, perché sono convinto che ci sia un fil rouge nella vita che lega tutto: lavoro, famiglia, affetti, amici, le tue convinzioni. La divisione della vita in compartimenti stagni è una visione meccanicista che non mi soddisfa”.

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