In questi giorni di chiusura dei luoghi di divertimento e socializzazione, il sentimento di fragilità, anzi di vulnerabilità, della nostra condizione di impotenza di fronte al coronavirus ci fa capire tante cose. Una di queste, almeno a chi insegna da anni la letteratura ad adolescenti cresciuti con snacks e web, è quella frase un po’ inflazionata che Cicerone pronuncia in una celebre orazione Pro Archia: “quae iacerent in tenebris omnia, nisi litterarum lumen accederet”. Quando tutto è prostrato nell’oscurità, ci si accosta alla luce della letteratura.
A molti è nota la digressione di Lucrezio, poeta del I secolo a.C., autore del poema didascalico De rerum natura, sulla peste ad Atene, che dilagò nel 430 a.C., nei primi anni della Guerra del Peloponneso.
“Una sorta di malattia (ratio … morborum) e flusso letale (mortifer aestus) ammorbò un tempo nel paese di Cécrope (Atene) i campi e rese una landa desolata le vie, svuotò la città di abitanti” (vastavitque vias, exhausit civibus urbem).
Per contrastare il potenziale contagio da questa sorta di peste dei nostri tempi, il coronavirus, il Governo ha imposto di non uscire di casa se non strettamente necessario; le nostre città si sono “svuotate” e desolate; il traffico delle automobili è quasi scomparso; abbiamo sentito forse megafoni urlare di stare a casa. Ma siamo in un certo senso uniti da questa “ragnatela” virtuale, il web, in cui “si annidano” (net) nuove forme di socializzazione e di proiezione del sé, dove ci si diverte, ancora – direbbe qualcuno. L’aria era solcata nei miti greci da Perseo, l’uccisore della Medusa, con somma leggerezza, mentre nei versi lucreziani è l’aria che contamina le acque (aut in aquas cadit), la terra (aut fruges persidit in ipsas) o il cibo che nutre gli uomini (aut alios hominum pastus pecudumque cibatus).
Quale sarebbe la supposta modernità di Lucrezio in tempi di coronavirus? Si tratta in modo particolare dell’aria che entra nel respiro stesso e noi uomini mettiamo nel nostro fragile corpo (aut etiam suspensa manet vis aere in ipso/ et, cum spirantes mixtas hinc ducimus auras,/ illa quoque in corpus pariter sorbere necesse est).
Ebbene, si respira, il fiato dell’uomo, di questa aria prodotta dalla natura vegetativa della natura che stiamo mettendo in pericolo con il nostro inquinamento di uomini del terzo millennio: ai tempi antichi, non c’era la “mascherina” con la quale pensiamo di porre uno scudo contro la pericolosità dell’aria pregna di coronavirus, riparandoci dal contagio. Ma che cosa può simboleggiare la mascherina ostentata da chi cammina per strada nelle nostre megalopoli (ovviamente se non per motivi strettamente necessari)? È questo il segno dei tempi che viviamo, un oggetto – la mascherina – che sintetizza una temperie e una condizione dell’uomo nel 2020? In attesa di dare una risposta (ciascuno faccia il proprio discernimento), per Lucrezio, come scrive Fernando Rosa, medico-filosofo, “la malattia rivela all’uomo anche il senso del tempo al quale ci si può sottrarre, sottraendo ad esso l’ansiosa attesa della morte: infatti solo un tempo ‘atomico’, oscillante fra istante ed eternità, è in grado di ridurre il dolore umano. La malattia è, infine, un modello del collasso individuale, sociale e umano di fronte al lato distruttore della natura”.
Qui pare che sia avvenuto il contrario: la natura si è “ribellata” all’uomo dominatore, come si sentiva fin dai tempi del Rinascimento, quasi per mandato divino. Ma torniamo al contingente. Si sa: l’Italia è la patria dove si esercita l’arte dell’arrangiarsi, soprattutto in tempi di crisi e di emergenza: quando non lo siamo mai stati? Sul webnet si vede persino il tutorial per fare una mascherina con la carta da forno… Scrive Lucrezio: “Esce più volte fuori da casa sua colui che lo stare in casa ha annoiato, ma subito ritorna, in quanto sente che fuori non si sta per niente meglio”. Forse si sarà dimenticato la mascherina per proteggersi da un mondo che si sta disgregando, piano piano, come gli atomi di cui parlava il poeta latino, per una futuribile palingenesi?