Tutta le riflessione del mondo greco-romano sull’idea di uomo, di persona, s’incentra sulla presenza di due elementi, il corpo e l’anima, mai da nessuno negati. Ma il loro reciproco rapporto, e la loro importanza per definire la persona, variano nelle diverse concezioni. Il testo dei primi versi dell’Iliade, dove si parla degli “infiniti lutti” degli Achei, distingue fra le anime andate “molte anzi tempo all’Orco” e i corpi lasciati in balia degli animali predatori: ma a differenza delle diverse traduzioni (ad es. “lor salme” del Monti), i corpi sono definiti da Omero col pronome aytoùs, “essi, essi stessi”, perché l’identità della persona consiste in quel corpo rimasto sul campo, mentre l’anima costituisce un’appendice che nell’al di là ha una vita umbratile e inconsapevole o al più una nostalgia dolorosa, come risulta poi nell’Odissea.



D’altra parte l’idea della sopravvivenza dell’anima oltre la vita, con precise destinazioni di punizione e premi, attraversa tutti gli autori successivi, accanto ad un’ansia di immortalità che si manifesta in altri aspetti, i figli, la stirpe, la fama, il ricordo.

Sarà Platone e tutta la sua scuola, dalla profonda risonanza anche in ambito cristiano, a capovolgere l’idea omerica: l’uomo consiste nella sua anima e l’inserimento di questa in un corpo costituisce un inciampo, un errore, per cui tutta la vita non sarà che un desiderio di tornare al volo dell’anima e alle sue visioni. L’idea della reincarnazione, della trasmigrazione dell’anima, presente nel mio platonico di Er e ripresa anche da Virgilio nella sua rappresentazione dell’aldilà, accentua la divisione rispetto al corpo, ospite occasionale e interscambiabile, pur necessario per la vita terrena.



Benché le visioni dualistiche siano differenti, manca in ognuna di queste concezioni l’idea dell’unità della persona, della sua identità unica e irripetibile. Per questo è particolarmente interessante un testo che nasce in un ambito filosofico materialistico: si tratta del terzo libro del De rerum natura di Lucrezio, il poeta latino che introduce a Roma la concezione epicurea.

L’autore parte da uno scopo: rendere gli uomini felici attraverso il quadrifarmaco, quattro punti tesi ad eliminare paure e insoddisfazioni. Uno di questi punti riguarda la paura della morte, considerata soprattutto come timore del giudizio e delle pene, e per eliminarla è necessaria la dimostrazione della mortalità dell’anima, cui è dedicata parte del terzo libro: anche l’anima, come il corpo, è formata di atomi e con il corpo si dissolve nella morte.



Al di là dello scopo strumentale della dimostrazione ai fini del quadrifarmaco e della discutibilità della dimostrazione stessa, ciò che colpisce è l’insistente affermazione dell’unità della persona, senza alcun dualismo che ne mini l’identità: “quando non ci saremo, quando ci sarà la separazione del corpo e dell’anima da cui siamo unitariamente connessi, chiaramente non potrà assolutamente accadere nulla a noi, che non ci saremo più… noi che consistiamo del legame e dell’unione del corpo e dell’anima, unitariamente connessi”.

L’accumulo di termini sottolinea con forza l’idea unitaria di persona: ma Lucrezio va oltre, introducendo due ipotesi. La prima è nella forma del periodo ipotetico di primo tipo, che accosta causa ed effetto senza porre un giudizio: “e se, quando la natura dell’animo e la potenza dell’anima è stata strappata dal nostro corpo, ancora ha sensibilità, questo tuttavia non ci riguarda per nulla”. La sopravvivenza dell’anima, prima negata, è qui considerata come ipotesi: ma non c’è più la persona, il noi, che siamo quell’unità. L’argomentazione affascina: la divisione fra anima e corpo provocata dalla morte è anche per un cristiano un fatto misterioso. Non era diverso il progetto di Dio? Non è la morte il fatto più innaturale? L’unità della persona, salvata nella Resurrezione, nell’Ascensione, nell’Assunzione di Maria, è un vertiginoso, inatteso, inizio di risposta all’autore pagano.

Ma vi è una seconda ipotesi, questa volta nella forma grammaticale della possibilità: “se il tempo raccogliesse la nostra materia dopo la morte e di nuovo la rimettesse com’è ora e nuovamente ci fossero date le luci della vita, tuttavia anche questo fatto non ci riguarderebbe, una volta interrotto il ricordo che abbiamo di noi”. Per noi che crediamo nella resurrezione della carne, secondo la formulazione del Credo, non si tratta del ricomporsi di elementi secondo una probabilità che la lunghezza del tempo renderebbe credibile: sappiamo che nell’ultimo giorno i salvati godranno Dio con tutta la pienezza del loro essere; ma come questo avverrà è un mistero che noi non riusciamo a capire, e che un pagano non può immaginare.

Tuttavia ci colpisce la grandezza dell’antropologia di Lucrezio, paradossalmente connessa con una visione materialistica e antireligiosa, che anzi sembra necessariamente presumere l’affermazione della dignità e dell’unicità della persona umana, quel noi che siamo, quell’io che sono.

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