“Si dice di alcune persone che, quando entrano in una stanza, la occupano tutta. / Dovrei immaginare che, quando se ne vanno lasciano un grande vuoto. / Sono invece portato a pensare che a lasciare un grande vuoto siano le persone umili, silenziose, che occupano soltanto lo spazio necessario, che si fanno amare”.
Questo testo, riportato nel retro di copertina e contenuto all’interno dell’ultima raccolta postuma di Giampiero Neri (1927-2023), intitolata Utopie (Ares, 2023), già ci dice molto di Giampiero Neri e del suo modo di guardare alla vita e alle molte persone che ha incontrato nel suo lungo cammino. Egli le soppesava non in base alla loro fama e fortuna, né al loro eloquio, ma in base al loro cuore, alla capacità di ascoltare e sapersi rapportare al silenzio, da cui veniva per Neri la lezione più grande.
Era di poche parole, sempre misurate, come i suoi versi, spesso caratterizzati dalla reticenza. Scomparso il 15 febbraio scorso, all’età di 95 anni, ha continuato a scrivere fino agli ultimi giorni della sua vita nella sua abitazione milanese, circondato dall’affetto dei suoi cari e dei tanti amici che andavano a trovarlo. Questo libro, che raccoglie gli ultimi scritti, riuniti da Alessandro Rivali per le edizioni Ares, costituisce una sorta di vero e proprio “testamento”, un lascito fatto radunando insieme i suoi sparsi ricordi, alcuni dei quali riaffiorano da un passato lontano, altri invece legati ai temi a lui più cari, come la natura, la presenza del male, per terminare poi con un accenno alla pandemia di Covid, “il nemico insidioso”, e una parte finale, Prontuario per degenti in ospedale a conduzione pubblica, legata agli ultimi giorni di ricovero ospedaliero, prima del definitivo congedo da parenti e amici.
Il libro si apre con una sezione intitolata Adolescenza, in cui ci racconta del suo difficile rapporto con la madre e della sua fuga con l’amico Augusto Tettamanti che, scrivendogli lettere piene di affetto ed entusiasmo per la loro amicizia, era l’unico in grado di dare un po’ di senso a quei difficili giorni e colmare il suo “bisogno di parole”. Era il mese di ottobre del 1943, un momento difficile per la sua famiglia, che dopo l’8 settembre si trovava “dalla parte sbagliata”, quella dei fascisti. “Viaggio a Roma” si intitola la seconda sezione del libro, in cui racconta di alcune tappe di avvicinamento, Grosseto e poi Genova, prima di giungere nella capitale che nelle vicinanze “si rivelava già nella sua grandezza, con quello che rimaneva dei monumentali acquedotti. / Apparivano isolati nella campagna romana come isole nel mare”.
Ed è a Roma che termina la fuga dei due amici che vengono assorbiti dal traffico della capitale, nella sua “circolazione confusa”, ultima tappa di un difficile viaggio che lo porterà al ritorno a dover fare i conti con una terribile tragedia, di cui tace, che colpirà la sua famiglia: la morte del padre, avvenuta per mano di due esponenti dei gruppi di azione patriottica.
Il fatto che il bene sia un’utopia e il male costituisca un mistero insondabile e necessario non significa che non possa essere contrastato: per questo spiccano nel libro diverse figure che hanno saputo superare le ideologie e gli odi politici e che hanno avuto nei suoi riguardi dell’affetto sincero. Una sezione intera è dedicata al professor Bonaventura, che insegnava matematica e fisica, da cui Neri si recava per prendere lezioni private in vista degli esami di maturità scientifica “sempre immerso nei suoi pensieri, era distratto e sembrava appartenere ad un altro mondo”. Di famiglia ebrea, “aveva subito diverse angherie dai tedeschi”. “Mi ero sentito in dovere di accennare che la mia famiglia aderiva al governo di allora. Per tutta risposta mi aveva abbracciato”.
Un’altra figura è Natalina: una militante socialista che “nelle manifestazioni pubbliche e nei cortei portava la bandiera”. Nonostante il suo credo diverso era stata assunta nella casa di via Mainoni come donna di servizio: “Mi riservava una particolare affettuosità – annota Neri – e credo che, nella mia infanzia, sia stata la presenza più tenera, con quella di mia nonna”.
E dall’erbese Natalina alle donne ucraine che prestano servizio a Milano come badanti o come domestiche, il passo è breve, a patto di saper cogliere quei fili sottili che la storia tesse fra le vite delle persone anche di epoche lontane: “Come obbedienti a un richiamo del cuore” scrive Neri, “hanno trovato in Piazzale Libia il loro ritrovo per la domenica mattina. / La grande aiuola al centro della piazza è il loro luogo di elezione, la loro Duma. Ma pacifica / questa volta, cinguettante, addirittura sorridente”.
Ma utopia è anche sperare che si impari dai propri errori e che gli orrori della storia non si ripetano: purtroppo la storia non è magistra vitae, o, se lo è, lo è solo per pochi illuminati, come Milarepa, maestro Zen a cui Neri guardava con ammirazione, che era stato cresciuto dalla madre nell’odio verso chi aveva distrutto la loro famiglia. Egli si era vendicato facendo cadere sul villaggio una pioggia di pietre nere che lo aveva raso al suolo, ma poi si era pentito. “Anni dopo Milarepa ripensava alle sue azioni, non avrebbe voluto tanto sangue. / Prese la decisione di ritirarsi dal mondo e salì in montagna. / Si nutriva di erbe, viveva in solitudine”.
Non mancano poi ricordi legati al cerchio familiare, al fratello Peppo a cui sottoponeva i suoi lavori ancora in fieri, e di cui scrive “personalmente avevo come l’impressione di nutrirmi alle sue parole, ai suoi giudizi e commenti sempre meditati, ponderati”. Un appuntamento è dedicato all’incontro con quella che sarebbe poi divenuta sua moglie, avvenuto nella banca in cui si dovette impiegare suo malgrado a causa delle difficoltà economiche, ma sono presenti anche ricordi legati alla madre e a veri amici.
Uno scritto è dedicato agli animali, “che svolgono i loro compiti guidati dall’istinto, anche se difficile o meraviglioso, / con l’unica eccezione del genere umano che è solito fare ‘di più’ e di meno di quello che deve”. L’utopia di esserci evoluti e di aver fatti passi da giganti nell’ambito della conoscenza è subito smentita dall’aggiunta successiva, non priva della consueta ironia: “con tutto questo, siamo rimasti al punto di prima, ne sappiamo meno di un piccione viaggiatore, meno di una formica”.
La frammentarietà che il lettore avverte nel libro è sintomatica della difficoltà di ricostruire un passato che sfugge alla presa e che riaffiora nella memoria come “materia incerta”, motivo al quale Neri ha legato la sua intera opera poetica. Si coglie infatti nell’autore non tanto la voglia di eternare, ma piuttosto di prendere atto di questa legge delle cose, come testimoniano questi versi contenuti nella raccolta Non ci saremmo più rivisti (Interlinea, 2018): “Di quelle vaghe ombre / dei nomi cui corrispondevano, / il tempo cancellava la memoria”.
Se è vero come scriveva Eliot che ogni opera al suo apparire muta qualcosa in tutte le sue precedenti, certamente lo è anche per questa che costituisce l’ultimo atto di una pentalogia pubblicata da Ares, di cui fanno parte Da un paese vicino, Piazza Libia, Un difficile viaggio, Un insegnante di provincia. Ma al di là del lavoro critico, che aiuterà certamente a far luce sul suo lasciato e sul suo magistero, credo che a ben rappresentare l’essenzialità e la validità del suo operato possano valere le stesse parole che egli ha utilizzato per parlare della chiesa di Rezzago, a pochi chilometri da Erba, a cui ha dedicato la sezione intitolata Del romanico, davanti alla quale “lo stupore tiene sospesi, fra l’ammirazione e l’infinito”: “Qualcosa supera l’essenzialità del disegno, non c’è niente da togliere, ma soprattutto niente da aggiungere”. E di seguito: “Il manufatto è nudo, privo di qualunque ornamento. / Deve solo rispondere al bisogno di verità”. Un bisogno di verità che trapela dai suoi scritti ed è stato sempre alla base della sua ricerca poetica ed esistenziale.
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