Ho aspettato con un po’ di impazienza la traduzione (per i tipi dell’editore 66thand2nd) de Il canto del profeta di Paul Lynch, vincitore del Booker Prize 2023, arrivato nelle librerie da qualche settimana, e in effetti il libro mantiene, specie fino alla metà, buona parte delle promesse che sempre rinascono ogni volta che piego la prima di copertina di una nuova lettura.
La protagonista è Eilish Stack, una scienziata madre di quattro figli di cui uno maggiorenne e uno in fasce, sposata con un sindacalista, che si racconta in prima persona trascinandoci nella voragine dentro cui, inspiegabilmente, viene travolta. C’è di mezzo una forma narrativa raffinata, capace con pochi cenni di metterci fin dalle prime righe di fianco alla protagonista e assaporarne i sentimenti, le preoccupazioni, gli umori e poi via via i timori, l’ansia e lo sgomento.
C’è una potente forza letteraria capace di portarci nel flusso degli eventi di una Dublino contemporanea in cui, come di recente a noi tutti è capitato, norme di sicurezza impongono restrizioni inimmaginabili fino a qualche anno fa. Solo che qui la vicenda scava trincee profonde e il sistema esige spazi assoluti di sottomissione. In breve il marito di Eilish, che si ostina a non capire come sia impossibile che qualcuno vieti o limiti il diritto costituzionale di dissentire, scompare nel nulla, nella migliore tradizione dei poteri totalitari. “In realtà è abbastanza semplice, stanno cercando di cambiare quello che noi due chiamiamo realtà, la vogliono intorbidire come l’acqua, se dici una cosa che è un’altra cosa e lo ripeti abbastanza spesso, allora dev’essere così, e se continui a ripeterlo tante volte, la gente crede che sia vero – naturalmente è un’idea molto vecchia, niente di nuovo, in verità, solo che ora la vedi in azione nella tua quotidianità, non in un libro”.
La vita e le pagine accelerano in sequenze serratissime in cui gli spazi di movimento e di espressione progressivamente si riducono: chi non è per il sistema – che tutto riesce a dirigere – viene isolato, minacciato e poi allontanato, lasciato volentieri in mano ai fanatici adulatori del potere che scaricano su di loro rabbia, urla, sassi scagliati sulle vetrate e auto prese a mazzate. “Normalmente lo Stato dovrebbe lasciarti in pace Michael, non entrare in casa tua come un orco, prendere un padre in pugno e mangiarselo, come faccio a spiegare una cosa del genere ai ragazzi, che lo Stato in cui vivono è diventato un mostro?”
La via dell’annientamento della persona è stata ampiamente sperimentata (con ottimi risultati) per tutto il Novecento e qui non si fa che seguirne l’esempio, ma a un certo punto sorge la domanda su dove l’autore ci voglia portare: sì, ha una scrittura magnifica, sontuosa in non pochi tratti, in certi momenti riecheggia la formidabile tensione de La strada di Cormac McCarthy, ma oltre a essere sgomento e impaurito, oltre a percepire il rischio reale di un potere sempre più in grado di manomettere, manipolare, stritolare il soggetto, cosa resta come via di uscita? Oltre alla fuga dei protagonisti non ci sfiora nemmeno una pallida luce di sole capace di germogliare in speranza, perché nell’orribile – come insegnava Viktor Frankl (che sulla sua pelle martoriata ha subito le violenze atroci del potere) – occorre attribuirne un senso, altrimenti in ogni caso si soccombe.
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