Il termine italiano maestro è la continuazione del latino magister. L’etimologia della parola è cristallina: nella prima parte troviamo magis, un avverbio comparativo derivato dalla stessa radice di magnus “grande” e maior “maggiore”: il valore è quindi “più”, in tutti i sensi che può avere la parola. Nella seconda parte, –tero-, abbiamo un suffisso che indica un confronto fra due realtà: il suffisso non è normalmente usato in latino, ma è vivo e vitale e serve a formare comparativi in altre lingue, come il greco e il sanscrito.



Quindi magister è propriamente colui che è “più del più”, qualcuno ritenuto superiore, una persona di indiscutibile autorevolezza a cui è dovuto rispetto incondizionato.

Nella posizione diametralmente opposta rispetto al magister si trova il minister “ministro”, formato con lo stesso suffisso –tero applicato a minis, variante di minus “meno”: anche qui il comparativo di un comparativo. Nella sua accezione originaria il ministro è colui che compie un servizio subordinato, come si rileva da molti usi del termine e dei suoi derivati: ministro è chi amministra, cioè cura e provvede a beni non suoi (ad esempio amministra i sacramenti), e ministrante è il laico che serve all’altare durante la messa. Nel corso dei secoli la parola ha designato una funzione via via più elevata nella scala sociale, fino al valore attuale di ministro (con ministero e parole connesse).



Resta da precisare che, mentre maestro è parola di diretta derivazione latina, ministro è un latinismo assunto dalla lingua dotta. Una continuazione diretta si ha in minestrare “compiere un servizio”, verbo che si trova in testi italiani antichi e si è specializzato nel senso specifico di “servire il cibo, mettere il cibo nei piatti”. Da questo verbo è tratto minestro (oggi disusato) e minestra, che è appunto la vivanda servita nel piatto.

Mentre magister ha in sé idee di autorità e di rispetto, la parola greca equivalente, didáskalos, derivata dal verbo didáskō “insegno”, non ha la stessa densità concettuale. Il didáskalos è il maestro che insegna ai bambini, e la sua attività prende il nome di dídaxis (da cui in italiano didassi e didattico) e didaché è l’“insegnamento”, ed è anche il titolo di uno dei più antichi testi della letteratura greca cristiana.



Magister ha avuto una notevole fortuna anche del di fuori delle lingue neolatine: riprese si hanno in lingue germaniche (tedesco Meister, inglese master, svedese mästare), celtiche (irlandese máistir), baltiche (lituano meistras), slave (polacco mistrz, russo master, serbo majstor), e persino in lingue di aree lontane come l’India (nepalese e marathi māsṭara, tamil e telugu māstar) o l’Asia centrale (kazako master).

La scarsa densità semantica di didáskalos spiega forse perché nei Vangeli i discepoli di Gesù spesso si rivolgano al Maestro col termine ebraico rabbî, che è la parola con cui ci si rivolge abitualmente ai dottori della legge: rabbì e didáskalos sul piano del contenuto sono equivalenti, come ci fa sapere Giovanni 1, 38 (“Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: ‘Che cosa cercate?’. Gli risposero: ‘Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?’”), ma rabbì contiene un’idea di deferenza che didáskalos non sembra avere.

Dal punto di vista della formazione, in rabbî (da cui anche l”italiano rabbino) abbiamo il suffisso di pronome possessivo –î “mio” e un nome legato a una radice semitica rabab il cui contenuto fondamentale è quello dell’abbondanza. Il termine rabbi non compare mai in Luca, la cui perizia nell’uso del greco è, come noto, superiore a quella degli altri evangelisti: Luca preferisce un termine schiettamente greco, epistáta, che ha un valore più prossimo a quello del latino magister, in quanto propriamente vale “che sta sopra, superiore”. Per esempio in Luca 9, 33 (l’episodio della Trasfigurazione) Pietro si rivolge a Gesù col termine epistáta, mentre negli altri due sinottici compaiono i termini rabbì (Marco) e kýrie “signore” (Matteo).

Infine, in sanscrito equivalenti del nostro magister si hanno in svāmin (che contiene l’idea dell’autosufficienza: sva- “sé stesso”) e in guru, parola che oggi si è ben radicata anche nell’uso italiano. L’idea veicolata da guru è però diversa: propriamente guru significa “pesante”, con un’etimologia che lo collega al greco barýs “pesante” e al latino gravis. Anche in latino del resto gravis è usato anche col valore di “autorevole”. L’autorità merita deferenza e affetto, ma in qualche caso può rivelarsi anche un peso!