Leggere la storia di Marco Mancini (Le regole del gioco, Rizzoli, 2023) significa addentrarsi in un pezzo di storia recente del nostro Paese, seguendo un determinato punto di vista, certamente parziale ma anche molto interessante.
Marco Mancini si arruola da sottufficiale nei Carabinieri l’anno successivo all’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse (1979), seguendo un ideale, quello di “servire il mio Paese”. Per cinque anni fa parte della Sezione speciale anticrimine di Milano, costituita qualche anno prima dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa allo scopo di combattere il terrorismo seguendo un metodo investigativo ben preciso che darà i suoi frutti e che verrà portato da Dalla Chiesa anche in Sicilia nella lotta contro Cosa nostra.
L’Italia all’epoca era un Paese in guerra, e Mancini si ritroverà ad affrontare soprattutto l’eversione rossa: Brigate Rosse, in particolare la colonna milanese “Walter Alasia”, Prima Linea e COLP (Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria). Nella “Speciale” tuttavia c’è grande chiarezza sul fatto che il terrorismo va combattuto usando “le armi della democrazia”, rispettando dunque certi valori e tenendo in grande considerazione un aspetto che Mancini si porterà dietro anche nel suo lavoro da agente segreto, il “fattore umano”. Un atteggiamento che a Mancini deriva anche dalla sua fede cristiana. Un esempio su tutti è rappresentato dall’arresto sul campo di Sergio Segio, nome di battaglia Sirio, leader di Prima Linea, che aveva organizzato diversi omicidi e che, sostenevano i collaboratori dei Carabinieri, non si sarebbe mai fatto prendere vivo.
Mancini afferma che nel momento della cattura, pur potendolo uccidere, non lo fece perché pensò in particolare al giudice Alessandrini che da Segio era stato assassinato. “Era un omicida, sì, ma prima e soprattutto era un uomo, e dovevo prenderlo incolume (possibilmente, restando incolume a mia volta). Perché non si spara a chi non ti sta sparando: è una persona, può cambiare. Desideravo sul serio dialogare con lui, sentire le sue follie, ribaltargliele addosso come un treno alla massima velocità, per convincerlo a invertire il senso di marcia della sua vita”.
Verso la metà degli anni 80 Mancini capisce che quello nella “Speciale” non è più il suo posto, anche perché sta cambiando il contesto della lotta al terrorismo. Grazie ad un sacerdote riesce ad essere ricevuto, e quindi in seguito arruolato, dal generale Lugaresi, all’epoca direttore del Sismi (il servizio segreto militare). Scoprirà solo diversi anni dopo che il suo arruolamento rientrava in un piano più vasto del generale, quello di cercare di “ripulire” i servizi dopo lo scandalo della P2.
Fu così che Mancini entrò a far parte della Prima Divisione del Sismi, dedita al controspionaggio, di cui ne diventerà poi il capo, cominciando così il suo lavoro di spia, non vergognandosi di questo termine che spesso viene usato in senso negativo ma che in realtà “viene dal latino specere, guardare”.
Il lavoro dell’intelligence ha uno scopo differente rispetto a quello dei Carabinieri e della polizia giudiziaria in generale. Non si tratta di reprimere, ma di prevenire, attraverso il reperimento di informazioni. Ma le informazioni non cadono dall’albero, occorre lavorare il terreno, costruire un contesto in cui possono maturare. Mancini, insomma, si convinse della necessità di far fare ai servizi italiani un salto di qualità: “si doveva ribaltare l’agenda, capovolgere la narrativa. Essere noi a invadere gli altri, inserendo fonti attive nei loro meccanismi. Adattare ad altri soggetti la filosofia d’intervento che avevamo adottato per scardinare le Brigate Rosse e Prima Linea a Milano. Metterci a specchio dei nemici, anticiparne le mosse. Entrare nelle loro scarpe prima che le calzassero. Usare la loro forza, applicandogliela contro. In poche parole: il controspionaggio attivo, o meglio il controspionaggio offensivo”.
Per mettere in pratica ciò occorre, ancora una volta, il “fattore umano”: costruire reti, relazioni, amicizie. Mancini sostiene l’importanza della Human Intelligence (Humint), in un periodo storico in cui si va sempre più affermando l’uso della tecnologia, avendo tuttavia l’intelligenza di non contrapporre i due aspetti: non aut-aut, ma et-et, risorse umane e strumenti digitali.
Un esempio dell’efficacia del controspionaggio offensivo è definito da Mancini il “mancato 11 settembre italiano”, di cui effettivamente poco si parla e poco si ricorda. Era il 2004 a Beirut e i servizi segreti riescono ad individuare il capo di al-Qaeda in Libano, Mikati. Fatti i dovuti accertamenti che fosse effettivamente lui, in collaborazione con i servizi libanesi riescono a farlo arrestare proprio mentre stava preparando un attentato contro l’ambasciata italiana a Beirut. Ci sarebbero stati probabilmente diverse decine, forse centinaia di morti, perché la quantità di esplosivo trovato nel covo di Mikati era consistente.
Un libro prezioso, quello di Mancini, soprattutto perché quando si parla di anni di piombo e di servizi segreti, spesso nel dibattito pubblico in Italia emerge quella tendenza a trattare la storia come fosse una sorta di romanzo giallo, pieno di complottismi e dietrologie. Ma la storia non è un thriller a tinte fosche, la storia è storia, va studiata attraverso le fonti, e il racconto di Mancini è certamente un documento importante anche perché costruito sui fatti.
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