Lo studio della formazione delle élites e della visione del merito che le qualifica costituisce uno buon punto di osservazione attraverso cui si possono indagare sia i princìpi che le regolano sia le trasformazioni ideali, politiche e sociali che le accompagnano, tanto verso l’alto (l’elaborazione, il governo e la distribuzione del sapere) quanto verso il basso (gli strumenti mediante i quali il sapere è veicolato fino ad entrare molecolarmente nella realtà quotidiana). Basta pensare ad esempio al ruolo della scuola, delle università, e, su un piano meno formalizzato, alle influenze culturali prevalenti, alla stampa e, soprattutto oggi, all’universo mediatico.
La riflessione sulle élites è tornata da qualche tempo in primo piano accanto al rinnovato interesse per il tema del merito, riscoperto e rilanciato dopo una lunga latenza dovuta a varie ragioni. Tra queste la principale si può ravvisare in una lettura primariamente sociologica della democrazia condizionata dal principio inclusivo e dunque diffidente verso tutto ciò che, a partire dalla vita scolastica, possa rappresentare un fattore di potenziale disuguaglianza, non distinguendo e non riuscendo ad armonizzare – per restare in ambito educativo – equità sociale, giustizia educativa, apprendimento e valorizzazione del merito.
A questi temi è dedicato un denso saggio di Alessandro Mangia, docente di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano, Governare il sapere. La Costituzione e la replicazione sociale (Editoriale Scientifica, 2024) che indaga il problema del merito e delle élites all’interno di una complessa ricostruzione intellettuale nella quale s’intrecciano sapientemente apporti di matrice diversa, dal diritto alla politica e alla storia, dalla filosofia all’economia e alla sociologia.
Il filo conduttore del saggio – sintetizzando al massimo – è rappresentato dall’indagine sulla trasformazione della nozione di élite e, conseguentemente, di quella di merito, in un periodo coincidente sostanzialmente con gli anni della Repubblica. L’analisi dell’autore scorre dal principio dell’“ascensore sociale” (concepito come un interesse pubblico) su cui potevano salire i capaci e meritevoli anche se privi di mezzi (fondamento dell’art. 34 della Costituzione) alla successiva diffusione uniforme della “figura dell’azienda come unità di base e modello dell’organizzazione sociale centrata sul trinomio ‘Efficienza’, ‘Produzione’, ‘Valore’, dove il merito si identifica con “l’efficienza nella produzione di valore”.
Il “bene sociale” di cui si parlava in Costituente, in altre parole, è diventato “non qualità del ‘cittadino-persona’, inteso come parte di un Popolo, che fa capo ad uno Stato, fatto di individui destinati, attraverso il lavoro, ad una ‘esistenza libera e dignitosa’ (art. 36 Cost.), ma semplice ‘capitale umano’ di cui ciascuno è frazione, e della cui messa a frutto ciascuno è responsabile per il bene collettivo”.
Secondo Mangia la concezione del merito sarebbe in tal modo gradualmente, ma inesorabilmente, transitata da valore morale, come era stata originariamente pensata dai padri costituenti (una conquista della persona non solo materiale ma anche eticamente robusta), in una qualità generica della popolazione nel frattempo convertita in “capitale umano”, divenendo “misura della idoneità degli individui che compongono la popolazione a produrre efficientemente valore, nel senso, più elementare, di valore economico”.
Se in passato, poi, si dava per scontato che fosse compito dello Stato governare con il concorso e il confronto con i principali attori istituzionali (ad esempio i partiti) e sociali (sindacati e associazionismo) su base politica, gli itinerari meritocratici, lasciando ai privati qualche margine di libertà (le scuole paritarie e le università private), oggi la situazione è radicalmente cambiata. “Nel nuovo contesto della società aziendale – annota l’autore – la funzione di elaborazione e trasmissione del sapere da parte statale è diventata una funzione complementare, servente i bisogni della società aziendale, che ha reso reale la fusione totale di Stato e Società”.
Questa fondamentale transizione ha le sue radici nel principio della “massima felicità possibile” predicata già tra XVIII e XIX secolo dal filosofo ed economista inglese Jeremy Bentham. Nell’impostazione benthamiana il merito si identifica e si confonde con la diffusione del benessere alla quanto più ampia possibile quota di popolazione. Secondo l’ideologo anglosassone il merito è parametrabile con le unità di misura della felicità che sono: intensità, durata, certezza, prossimità, fecondità (possibilità di piaceri futuri), purezza (incapacità di produrre dolore), estensione (numero di persone coinvolte).
In questo schema ideale – che si è srotolato nella storia attraverso molteplici e successivi altri autori – il merito, concepito in termini di funzionalità al vivere comune e alla capacità produttiva, è così diventato equivalente di “benessere”, dando naturalmente per scontato che il benessere sia principalmente benessere materiale quantitativamente misurabile.
“Sicché, nell’immaginario collettivo di stampo aziendale/benthamiano – afferma l’autore – quello di merito è diventato il termine che dovrebbe riassumere (e legittimare) benessere materiale, posizione sociale, felicità personale di un individuo, secondo uno schema non troppo diverso, nella sostanza, da quello illustrato cento anni fa da Max Weber e mai abbandonato”.
Queste premesse di carattere generale hanno avuto (e hanno) significative ricadute sul sistema scolastico e sulla formazione delle élites che – per quanto non più intensamente ed esclusivamente come un tempo – maturano la loro vocazione nelle aule dell’istruzione secondaria e, ancor più, in quelle dei corsi universitari.
Mangia individua l’indebolimento dell’azione formativa dell’istituzione scolastica e universitaria in tre punti principali: “a) funzionalizzazione ai bisogni della società aziendale del sapere trasmesso; b) trasmissione di competenze specifiche e limitate in ragione della settorializzazione del sapere; c) digitalizzazione/impoverimento dei processi di apprendimento e delle capacità cognitive generali e specifiche”. A questo bisogna aggiungere un ulteriore elemento, che è quello della “profonda ideologizzazione del ‘formante’ che governa il meccanismo di replicazione sociale, avvertibile soprattutto negli USA, ma a cui l’Europa non è estranea”, con la forte pressione esercitata da importanti centri internazionali e potenti fondazioni private, specialmente anglosassoni, favorevoli a un sempre più stretta integrazione tra sistema formativo e mondo produttivo.
Dal “sapere profondo” esito di un’antica tradizione culturale si transita verso il “sapere utile”, l’unico che darebbe un senso al sapere stesso. Le élites assicurano, attraverso la padronanza delle tecnologie, l’efficienza sociale e mediante questa il benessere dei cittadini. La determinazione del “merito” si riduce in tal modo alla semplice funzionalità dell’individuo al sistema della produzione di valore a breve termine e alla perpetuazione del modello sociale in cui si svolgono i processi di produzione.
Questa impressionante perdita di “memoria storica”, sostituita dall’efficientismo eretto a categoria ontologica che accompagna l’attuale discorso su élites e merito, non resterà senza conseguenze, perché – conclude Mangia – “a società povere, materialmente e culturalmente, perché senza memoria, non possono che corrispondere élites povere, materialmente e culturalmente, perché senza memoria”.
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