“Mi metto in fila tutte le domeniche, e prendo un’ostia… Poi torno al banco, dico una preghiera, finisce la Messa, esco ed è come se niente fosse. Ma… se penso davvero a quel che faccio, devo sperare che nessuno mi veda. Che chi conosco non pensi, come penso io, e non s’indigni per la mia follia. Perché è da matti credere di mangiare Dio”.



Già dall’introduzione al testo (Il farmaco dell’Immortalità. Dialogo sulla vita e l’Eucaristia, di Arnoldo Mosca Mondadori e Monica Mondo, Brescia, Scholé-Morcelliana 2019), la giornalista Monica Mondo mette bene in chiaro il paradosso affascinante di questo libro: provare a prendere sul serio l’Eucaristia; a prendere sul serio quello che avviene durante la Comunione: nutrirsi di Dio. Non è facile, né scontato affrontare questo tema. E non solo perché chi non crede potrebbe considerarti pazzo, ma anche (e forse ancor di più) perché chi – almeno un poco – crede all’Eucaristia, è riuscito nell’inimmaginabile: ridurre a gesto consueto, anestetizzato, irriflesso o poco pensato la mossa più audace che Dio abbia potuto pensare. È sempre la Mondo che scrive: “Dio, l’essere supremo creatore e signore… Dio, da mangiare. C’è da vergognarsi a mostrare di credere a certe cose. Cose da pazzi… Per chi non crede, è indifferente che un miliardo e mezzo di pazzi credano all’inverosimile, che possano essere capaci di tutto. E per chi crede, è diventata un’abitudine. Una cosa normale”.



Eppure, questa normalità è solo affettata: “Se Dio davvero si è dato agli uomini interamente e ha scelto quel pezzo di pane, non dev’essere contento che lo riteniamo normale. Non c’è nulla di normale”, perché del fatto che Dio si faccia presente nell’Eucaristia “come realtà viva, vera, carnale, corpo e sangue… non ci si capacita”.

Il problema è tutto qui: non tanto in un “difetto di forma” della ritualità eucaristica rispetto al sentire dell’uomo d’oggi, né in una “mancanza di efficacia” del modo scelto da Dio per rendersi presente. Ma, piuttosto, nella mancanza di consapevolezza da parte nostra. La Mondo ne è consapevole: “…non sta a noi comprendere il metodo e le idee di Dio… Dio ha scelto di farci parte del suo corpo permettendo che restiamo ignoranti e deboli e duri di cuore”. Tuttavia, “all’Eucaristia ci accostiamo tutte le domeniche, in tutte le Messe. Non si può far finta o assopirci nell’abitudine”.



Ma dal sopore e dal torpore dell’abitudine si esce solo se qualcuno ci risveglia, ci tocca, ci da di gomito, magari anche in un modo non proprio del tutto gradevole. È quello che è accaduto alla giornalista: per caso le capita di conoscere “un uomo elegante, colto, mite, manager di successo… Che con lucida intelligenza… sente la presenza di Dio, quando riceve l’Eucaristia”. E, siccome l’uomo in questione non pare squilibrato, “c’è una sola alternativa”, soggiunge la Mondo, “che dica il vero”.

Ecco l’antefatto che da ragione della nascita di questo libro. Un dialogo, come afferma il sottotitolo, ma un dialogo serrato, intenso, sovente ruvido. Perché sono impietose (e non solo impertinenti) le domande che la giornalista, immedesimandosi – ma in parte pure condividendole – nelle obiezioni, ripulse, irrisioni, contrapposizioni della ragione moderna, del non-pensiero della post-verità, del confuso rimasuglio sociologista di catechismo postsessantottino presente in molti, pone al proprio interlocutore. Un interlocutore la cui identità è sorprendente: Arnoldo Mosca Mondadori, protagonista della cultura italiana degli ultimi vent’anni, che si ostina a pigliare molto sul serio le parole di Cristo sul pane e sul vino. E da qui prende le mosse questo libro. Che però è qualcosa di inatteso, di imprevisto.

Di trattati di teologia, di libri di spiritualità, di testi catechetici, di manuali di devozione che parlano dell’Eucaristia come Presenza reale di Cristo, infatti, ce ne sono migliaia. Che possono essere utili – in varia misura – a quanti già credono, e risultare del tutto inservibili – quando non noiosi – ai non credenti.

Il dialogo tra Arnoldo Mosca Mondadori e Monica Mondo è tutt’altro. Non è un’argomentazione teologica, non fa leva sul sentimento religioso, non mira a istruire gli sprovveduti, non vuole semplicemente confermare la fede di chi crede. 

È innanzitutto una testimonianza: il racconto lucido, ma non per questo meno drammatico, di un uomo che si è trovato – da quando aveva nove anni – a vivere l’Eucaristia come l’esperienza reale di una relazione con Cristo, che ha inferto alla sua vita una ferita non rimarginabile, e insieme che ha aperto la sua mente e la sua ragione alla tensione verso un infinito sempre più connotato in termini personali. Come scrive lo stesso Mosca Mondadori: “Negli anni, sempre, e tutti i giorni, o almeno innumerevoli volte, c’è questa relazione con il Cristo, presene nell’Eucaristia. Mio malgrado, perché non è che allora Lo stessi aspettando”.

Non si tratta di una relazione “facile” da portare: da un lato plasma la vita, il carattere, lo sguardo su di sé e sul mondo; ma dall’altro rimane qualcosa di inatteso, di accaduto, che si scontra continuamente con i lati più oscuri della persona, con la sua fallacia, con una volontà che può e sa allontanarsi da Cristo – e di fatto sperimenta per questo la Sua assenza, ancora più penosa perché contrapposta all’esperienza vissuta del Suo esserci, qui ed ora.

Le poche decine di pagine che compongono il lungo dialogo divengono così un percorso che, pur non mancando mai di fascino, si presenta tutt’altro che scontato o tranquillizzante per il lettore, chiunque esso sia e qualunque sia il suo rapporto con la fede. In un periodare che ricorda talvolta le Operette morali di Leopardi, con le domande incalzanti e impietose del passante che si rivolge al venditore di almanacchi per smascherare l’illogicità delle sue credenze, Monica Mondo non lascia spazio alcuno al fideismo e a quel devozionalismo caramelloso che serve a eludere o anestetizzare le questioni più drammatiche – il dolore, l’ingiustizia, la perdita del senso dell’infinito… -, mentre dal canto suo Arnaldo Mosca Mondadori sembra quasi riecheggiare le Confessioni di sant’Agostino, quando intreccia nelle sue risposte due registri non meno densi di significato: la certezza di un rapporto che è accaduto e che continua ad accadere, e l’uso della ragione che questo rapporto non solo non ha sopito, ma ha stimolato e pungolato fino ad acuire il suo sguardo, rendendolo capace di scrutare anche le contraddizioni e le miserie degli uomini di fede e – ancor più – degli uomini di Chiesa. Perché una relazione vera con l’Eucaristia, lo si respira continuamente tra le pagine del libro, non sopporta alcun clericalismo e alcun “professionalismo”, ma chiede, al contrario, una risposta che non può non coinvolgere la propria vita in un processo di assimilazione con quella di Cristo, ovvero nella trasformazione del proprio corpo in un “sacrificio santo, vivente, gradito a Dio”, come scriveva san Paolo ai Romani.

Punto prospettico imprescindibile da cui guardare se stessi e tutta la realtà, l’Eucaristia si manifesta allora come vero centro sorgivo della ragione e dell’intelligenza, capace di riplasmare la comprensione stessa di quale sia il modo della conoscenza del reale. Lo descrive così Mosca Mondadori: “O noi diciamo che nell’Eucaristia si rivela quel che sarà, la realtà ultima, fondante di tutto ciò che è, o non stiamo dicendo la verità. Ci vuole il coraggio di dire che nell’Eucaristia si rivela la Realtà, e tutte le leggi che sostengono la realtà materica, l’universo, l’essere umano. Chi non crede a questa verità dovrebbe secondo me perlomeno tenerla come possibilità”.

Ma questa comprensione nuova è possibile solo se si accetta di vivere da innamorati di Cristo e di essere presi per folli a causa Sua: “Mi piacerebbe vedere tra i cristiani sempre più degli innamorati, come gli apostoli dopo la resurrezione di Gesù, di cui si dice negli Atti: Non potevano tacere… È normale essere presi per folli, anche perché il cristianesimo in sé è follia per il mondo”.

Ma nemmeno questa è l’ultima parola: esiste infatti una fantasia strettamente legata alla “follia cristiana”, e da essa, come si legge nella conclusione del libro, sono nate opere concrete capaci di rendere visibile nelle realtà più infime il riverbero dell’Eucaristia: laboratori nei quali detenuti di ogni specie preparano gratuitamente ostie che vengono utilizzate nelle chiese per la celebrazione della Messa. Un’idea “imprenditoriale”, ma capace di esprimere tutto il paradosso di quel frammento di pane, così come la lettura di questo libro non potrà non suscitare altrettanti salutari sussulti in chi si è disabituato a lasciarsi inquietare dall’Eucaristia.