Il saggio di Marco Mancini Le regole del gioco (Rizzoli, 2023) costituisce una difesa appassionata del suo lavoro sia all’interno della sezione anticrimine dei carabinieri, sia all’interno del Sismi e ci consente di avere una visione a tutto campo dell’efficienza, della professionalità, della integrità dell’uomo, delle forze dell’ordine e degli agenti operativi che hanno salvaguardato la sicurezza del nostro Paese.



Una difesa, questa, che costituisce anche una risposta chiara ed inequivocabile nei confronti di tutti i detrattori dell’operato di Marco Mancini e di quello dei servizi segreti.

Incominciamo dagli anni 80, quando la sezione anticrimine dei carabinieri fece irruzione nel covo principale delle Brigate rosse di Milano. Anche grazie a questa irruzione la sezione anticrimine evitò che scoppiasse in Italia la rivoluzione. Lo studio da parte degli agenti operativi dei carabinieri della documentazione delle Br consentì loro di capire in modo chiaro ed inequivocabile che questa non aveva assolutamente nulla di romantico ma che al contrario comportava soltanto morte e devastazione: la “rivoluzione” brigatista avrebbe garantito il potere di una ristretta oligarchia di fanatici sanguinari e non certo l’emancipazione del proletariato.



Come opportunamente sottolineato dall’autore, il 13 novembre 1982 rappresentò per il nostro Paese un clamoroso successo, una svolta fatale per l’unica branca delle Brigate rosse che era rimasta ancora intatta e cioè la colonna Walter Alasia. Le indagini fra l’altro appurarono il ruolo di grande rilevanza svolto dall’infermiera del Policlinico di Milano Ettorina Zaccheo che era responsabile della brigata ospedalieri e che aveva fornito informazioni ai compagni della colonna Alasia per uccidere nel 1981 il direttore sanitario Marangoni. Ciò che consentì lo smantellamento della colonna fu lo studio attento e puntuale della cultura del nemico: la sezione anticrimine leggeva con scrupolo i volantini studiando giorno e notte le rivendicazioni brigatiste cercando di immedesimarsi nella loro mentalità.



Un altro episodio di grandissima rilevanza nel contrasto al terrorismo brigatista ci viene raccontato dall’autore nel capitolo quarto, dove vengono illustrate le modalità con le quali fu catturato Sergio Segio, fondatore di Prima linea, nel 1983. In qualità di fondatore di Prima linea Segio aveva ideato e partecipato a diversi omicidi e proprio nel gennaio del 1983 stava preparando l’assalto al carcere di massima sicurezza di Fossombrone per liberare i suoi compagni detenuti. Il ritratto che Mancini fa di Segio è pieno di compassione, ma nel contempo anche di disprezzo.  Nel saggio che pubblicò nel 2005 dal titolo Miccia corta, Segio evoca l’innesco dell’esplosivo con cui il commando da lui guidato distrusse il muro del carcere di Rovigo per liberare la sua compagna Susanna Ronconi ma incidentalmente ammazzando un inerme cittadino. Nel saggio l’autore si compiace di aver portato a termine quest’operazione ricordando di aver bevuto un numero spropositato di bottiglie di uno champagne molto costoso ma dimenticando la morte di un cittadino innocente. Difficile non provare ribrezzo per questo cinismo. Nonostante la narrazione impostata dal fondatore di Prima linea sia stata finalizzata a costruire il ritratto di un eroe catturato dai “servi” dello Stato, in realtà per Mancini si tratta soltanto di un killer cinico e senza scrupoli. Triste anche il caso di una collaboratrice o compagna di lotta del fondatore di Prima linea e cioè Daniela Figini, appartenente alla Como bene, la quale si dichiarò prigioniera politica di fronte a una madre che rimase esterrefatta per l’appartenenza della figlia alla lotta armata.

Ma non si tratta certo di un caso isolato, poiché numerosi furono i figli della media e alta borghesia italiana che direttamente – o indirettamente – presero parte alla lotta armata. Ancora più eclatante il pedinamento di Oreste Scalzone in Francia: Mancini ricorda che il clima che si respirava leggendo diversi quotidiani e settimanali sia italiani che francesi era incredibilmente favorevole a Scalzone, nonostante egli fosse oggetto di mandati di cattura per reati molto gravi. Con grande onestà intellettuale l’autore sottolinea come Scalzone non avesse nulla di eroico ma fosse molto bravo a recitare la parte di un onesto padre di famiglia che veniva ingiustamente perseguitato. Ebbene, grazie ai suoi appoggi in ambito sia politico che giornalistico, riuscì ad ottenere gli arresti domiciliari (da questo punto fu decisivo l’aiuto sia di Pino Spazzali, fondatore di Soccorso rosso e vero e proprio sostenitore della lotta armata sia in Europa che in Angola, che dell’attore Gian Maria Volonté che con il suo veliero lo aiutò ad andare in Corsica).

Sempre nel 1984 furono smantellati i Comunisti organizzati per la liberazione proletaria (Colp). In particolare nell’ottobre dello stesso anno fu arrestata colei che coordinava questo gruppo e cioè Elvira Arcidiacono. Fra i particolari che l’autore illustra nel suo saggio vi è la componente profondamente antisemita che caratterizzava il programma di questa organizzazione terroristica. Questo riferimento alla dimensione antisemita non è casuale perché il Colp aveva nelle sue intenzioni di far esplodere un ordigno presso la sede della comunità israelitica di Milano ma non ci riuscì grazie al ruolo della sezione anticrimine.

Ma naturalmente anche l’estrema destra fu oggetto dell’indagine della sezione anticrimine e, in modo particolare dei Nuclei di azione rivoluzionaria (Nar), per i quali uccidere magistrati, poliziotti e carabinieri non era una tappa intermedia verso la rivoluzione ma un vero e proprio obiettivo. Secondo la loro fanatica ideologia – sostiene l’autore – tattiche e strategie coincidevano e tutto si consumava nel momento di gloria dell’assassinio. Le indagini svolte dalla sezione anticrimine porteranno all’arresto di due dei principali responsabili di questo gruppo di estrema destra e cioè Gilberto Cavallini e Stefano Soderini.

A conclusione della sua rassegna l’autore compie due osservazioni di grande importanza che non possono non essere condivise: da un lato in Francia esistevano certamente ambienti politici e culturali predisposti ad alimentare il virus del terrorismo, se non addirittura a nobilitarlo come espressione di libertà e di giustizia; e, in secondo luogo, in Italia le sezioni speciali che erano state create dal generale Dalla Chiesa furono smantellate e questo fu un errore strategico. Infatti lo Stato necessita di nuclei “anti-cancro” che siano preparati e pronti ad agire poiché il male non si concretizza a compartimenti stagni, ma cerca sempre di entrare in metastasi.

Quando l’autore entrerà nel Sismi avrà modo di sottolineare l’integrità e la professionalità non solo di Fulvio Martini – definito un vero e proprio genio dell’intelligence – ma anche l’onestà e l’integrità del generale Ninetto Lugaresi, che contribuì a smantellare la rete piduista all’interno dei servizi segreti italiani. Uno dei primi aspetti che l’autore osservò quando entrò all’interno del servizio fu l’esistenza non solo di una logica rigidamente compartimentata, ma soprattutto come fossero fondamentali le informazioni privilegiate e quindi le fonti che davano accesso ad esse. Insomma il vero lavoro dell’agente segreto era acquisire fonti e uno dei primi incarichi fu quello di monitorare la presenza di agenti del Kgb e soprattutto del servizio militare russo (Gru) a Bologna. Ma a Bologna era presente anche una fortissima rappresentanza di rampolli di importanti famiglie libiche più o meno vicine a Gheddafi e quindi la città di Bologna pullulava anche di spie di Gheddafi a caccia di dissidenti. Ecco perché l’autore cercò di stringere rapporti con alcuni libici di particolare rilevanza.

Ma ecco che a questo punto della narrazione l’autore formula un’affermazione politica di grande rilevanza: se le reti di collaboratori costruiti a quel tempo dai servizi fossero state mantenute nel tempo, oggi l’Italia sarebbe in grado di garantire forniture energetiche e soprattutto di governare i flussi migratori evitando il commercio di immigrati clandestini. Non solo. Bologna era importante perché vi erano forti legami tra i turchi e gli iraniani.

Una delle attività poste in essere con successo dall’autore fu quella di monitorare la presenza di agenti sovietici nel nostro Paese. Mancini sottolinea come le ambasciate e consolati dell’Urss avessero un’elevata percentuale di personale con immunità diplomatica composto in gran parte di uomini provenienti dai servizi segreti. Riuscire ad accaparrarsi la loro fiducia poteva essere decisivo per la salvaguardia della sicurezza del nostro Paese. Nonostante la caduta del muro di Berlino e nonostante la fine dell’Unione Sovietica, la colonna vertebrale del potere coincideva ancora e sempre con gli apparati di intelligence e non c’era nessuna differenza di coloritura ideologica o di natura etica. Contrariamente alla vulgata usuale, in Russia il servizio segreto più temibile era quello militare, cioè il Direttorio generale per le informazioni militari, perché era più forte del potere politico e addirittura impermeabile, oltre che non manovrabile, neppure da Putin.

La prima divisione del Sismi diretta dall’autore non aveva mai creduto alla favola dell’abbattimento della cortina di ferro, poiché le strutture spionistiche all’interno dei regimi totalitari non si smantellano da un giorno all’altro. Ci si limita piuttosto a dare una mano di vernice e a cambiare qualche parola d’ordine. ma soprattutto l’esperienza maturata all’interno della divisione del nostro servizio segreto italiano ha consentito all’autore di comprendere chiaramente come la dimensione tecnologica – per quanto importante – non possa neanche lontanamente sostituire l’elemento umano. Perché altrimenti non avrebbero previsto l’11 settembre? Perché i servizi segreti pur avendo nei loro computer analisi di ogni genere non sono riusciti poi a tranne le dovute conclusioni?

Un esempio dell’efficacia del controspionaggio offensivo teorizzato e applicato dall’autore è la mancata previsione dell’invasione russa in Ucraina. Aldilà delle affermazioni fatte dall’autorità delegata e cioè da Franco Gabrielli, non sarebbe stato difficile acquisire accurate informazioni sulla situazione reale in Ucraina. Ma per fare questo occorreva avere preventivamente reclutato risorse informative e avere addestrato agenti operativi capaci di contattare le fonti. E la tardiva espulsione fatta nel 2022 da parte di molti Paesi europei e non dei diplomatici russi era la dimostrazione che molti di essi non avevo lavorato bene a livello di intelligence, cioè non avevano identificato le strutture clandestine che il Cremlino aveva infiltrato in tanti Paesi europei. Soltanto la simbiosi tra l’elemento umano, in gergo Humint, e quello Cyber può consentire all’intelligence di essere veramente efficace.

Una delle maggiori operazioni di successo fu quella condotta nel 2016 contro un ufficiale in servizio presso il consolato generale russo di Milano e cioè il colonnello Surov. Fu grazie proprio alla prima divisione del servizio segreto italiano che fu possibile impedire che questo agente segreto si impossessasse delle lenti di un carro armato di fabbricazione italiana e l’aver portato a termine con successo quest’operazione che durò diversi anni consentì alla nostra intelligence di identificare reti spionistiche russe non solo in Europa ma anche in Medioriente. Complessivamente furono centinaia le spie identificate. L’espulsione dell’ufficiale del nostro Paese fu un’operazione – come la definisce l’autore – pulita, da manuale.

Se queste operazioni oggi sono sempre più difficili, se oggi il servizio segreto militare può fare passare dal nostro Paese un commando di spie incaricato di uccidere un russo a Londra, significa che quest’ultimo è perfettamente sicuro di non essere stato individuato dal nostro controspionaggio. E se ciò è stato possibile, una di queste cause è certamente la legge 124/ 2007 che ha finito per separare in modo innaturale in due il controspionaggio, dividendolo in uno interno e in uno esterno. Inoltre le gelosie, le burocrazie e le catena di comando aggrovigliate certo non hanno favorito né favoriranno l’azione del controspionaggio italiano. Recheranno solo vantaggio a quello russo. Basti pensare – sostiene non senza amara ironia Mancini – al fatto che il nostro Paese è stata presente per molto tempo una certa Natalia Burlinova, in grado di porre in essere in Italia vere proprie azioni spionistiche creando reti, fonti, reclutando soggetti di alto rango e arrivando persino a presentarsi nel 2023 come un’esperta presso l’Istituto di studi politici internazionali (Ispi) di Milano.

L’uso del controspionaggio offensivo ebbe modo di dimostrare la propria efficacia nel 2004 quando proprio i servizi segreti italiani – e cioè la prima divisione diretta da Mancini – sventarono il tentativo da parte della Jihad islamica di fare saltare col tritolo l’ambasciata italiana in Libano. Il responsabile di questo attentato era il maggior ricercato dei servizi segreti siriani sin dal 1986 e cioè Ahmad Mikati. Il servizio segreto italiano fu in grado di ricostruire la rete articolata e complessa con la quale l’esplosivo doveva essere portato presso l’ambasciata italiana, una rete che partiva addirittura da Osama Bin Laden ma anche dai principali responsabili del gruppo terroristico in Arabia e in Iraq.

L’uso del controspionaggio offensivo aveva tenuto a bada i gruppi orbitanti intorno intorno ad al Qaeda e alla jihad terroristica e si era riusciti a ottenere questo risultato senza ricorrere ad alcuna Guantanamo e senza praticare sequestri extra-giudiziari. L’arma vincente dei nostri servizi segreti era la penetrazione efficace di territori con la creazione di reti strettissime. E qui l’autore non può non riconoscere il merito di due protagonisti di questa vicenda, e cioè da un lato il direttore del servizio segreto italiano Nicolò Pollari e dall’altro l’autorità delegata Gianni Letta. Sempre seguendo la stessa logica del controspionaggio offensivo, la prima divisione del nostro servizio aveva costruito una rete di risorse umane locali in Afghanistan che ci consentiva una conoscenza molto precisa di quello che stava accadendo.

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