Con il giorno del suo compleanno, domani 2 dicembre, si chiuderà il centenario della nascita di Maria Callas. Ricorrenza che, per non esser poi molto distante dal quarantennale della morte, ossia il 2017, ha dato luogo certamente a studi, ricerche, convegni, mostre e celebrazioni, ma non poi in una misura larga e approfondita quale forse alcuni s’attendevano. Non si è tornati, tra l’altro, ad esaminare quella che nel 2017 venne suggerita come un’aggiornata ipotesi di lavoro su di lei, ovvero una “fenomenologia di Maria Callas”. Un riscontro, cioè, non tanto delle sue doti – voce, interpretazione, repertorio, impatto sulla storia del canto – quanto del suo palesarsi al mondo come un’epifania nuova, originale e demiurgica dell’esser cantante d’opera.
L’unico precedente cui riferirsi – difficile oggi dire di miti ottocenteschi quali una Pasta o una Malibran o un Gayarre – era stato Enrico Caruso. Il “fenomeno Caruso” aveva certamente travalicato i confini consueti ad un tenore sia pur celeberrimo, per imporsi come evento dinamico di costume. Evento che – non lo si dimentichi, né per lui né per la Callas – partiva da una realtà d’arte di totale eccezionalità e capace di sconvolgere al di là d’ogni uso corrente menti e cuori, pubblico viscerale e intellettuali sussiegosi, mezzi di comunicazione e arti contigue. Caruso era stato anche il primo a replicare sui palcoscenici operistici (ad esito d’istanze ovunque assai pressanti) quel mito dell’amante latino reso esplosivo sugli schermi da Rodolfo Valentino e da Ramon Novarro. Si dirà allora giustamente di un “prima di Caruso” e di un “dopo Caruso”.
Per la Callas le mosse di partenza erano state diverse. Di lei, come di qualcosa di più di una voce e di un temperamento stupefacenti, in fondo assai pochi s’erano resi conto, stante lo scarso appeal fisico d’una ragazza greco-americana sovrappeso e mal vestita. Né in verità si deve dire ci fosse nell’agone lirico (a guerra appena finita) una domanda di rivoluzioni e battaglie, appagandosi l’opinion publique del fascino signorile di una Tebaldi o di quello proletario d’un Di Stefano.
Qualcosa tuttavia per la signora Callas, dal 1949 in Meneghini, covava sotto la cenere: e si dice che la scintilla sia divampata in fuoco nel 1953 con un film, con quel Vacanze romane in cui l’immagine esile e raffinata di Audrey Hepburn aveva esercitato su Maria un autentico choc mimetico. Tanto più “pronosticato dalle stelle” in quanto ella era di lì a pochi mesi impegnata al Teatro alla Scala per La vestale di Spontini e La sonnambula di Bellini, entrambe a cura di un indiscusso arbiter elegantiarum della regia quale Luchino Visconti. Che in lei vedrà subito radunati i talenti di Anna Magnani, di Edvige Feullière e di Silvana Mangano. La trasformazione è a dir poco repentina: i trenta chilogrammi di sconto sulla bilancia, la scoperta di linee e profili affascinanti e d’una superba qualità di movimento in scena, ne furono solo alcuni.
Sì che, già dopo il 7 dicembre 1954, in un batter d’occhio (come ha scritto Jacopo Pellegrini), “Affrontare il ‘fenomeno Callas’ [ruota ora] intorno a due grandi poli di attrazione: la Callas come professionista della musica e interprete, ossia soggetto attivo; la Callas come soggetto passivo, o meglio, oggetto del discorso creativo, critico, antropologico, sociologico”. Per la prima volta, filosofi, storici della letteratura, dell’arte, del teatro, del cinema, guru della moda, esegeti della comunicazione indagano gli effetti della sua presenza umana e artistica nella sfera dello spettacolo e del costume sociale. E su questo secondo versante si scatenano le emulazioni, le divoranti curiosità, i servizi e i reportages, su carta patinata o su fogli quotidiani, di un’icona femminile attorno a cui i salotti buoni, le griffes, le scrutatrici mondane, gli opinion makers, si avventano in ressa. Soprattutto dopo La traviata del 1955 alla Scala, scandalo e successo in pari e proverbiale misura.
Le ali al volo non mancarono: Maria si mostrò all’altezza tanto della comédie humaine milanese, quanto di quella internazionale, che presto cominciò a corteggiarla in modo poi sempre più stringente. Fin forse a soffocarne gli immensi fiati, se l’interruzione della Norma ufficialissima al Teatro dell’Opera di Roma nel gennaio del 1958 deve esser presa come la spia rossa d’un motore troppo su di giri. Non era realmente così: gli impegni operistici della Diva riprendono ovunque, immediatamente, ma inseguiti dagli eventi successivi alla crociera sul Cristina, dalla fine del rapporto con Meneghini all’inizio della relazione con Aristotele Onassis. Ovvero un tornado mediatico tale da rendere Maria e qualsiasi suo suitier immancabili su rotocalchi, tabloid, reportages televisivi, cinematografici e radiofonici, nonché bersaglio ossessivamente perseguito da paparazzi e cronisti d’ogni risma. Il fenomeno Callas è al suo acme, non sapremmo dirvi se positivo o negativo.
Certo è che l’evento-concerto-rappresentazione del 19 dicembre 1958, al Théâtre National de l’Opéra di Parigi, è un’operazione di restauro d’immagine d’ indicibile genialità. Era un gala a profitto delle opere benefiche della Légion d’Honneur (al termine del concerto la Callas verserà in tali casse la somma di cinque milioni di franchi). La ripresa del gala, teletrasmessa in nove nazioni europee, era effettuata con la regia di Roger Benamou e con la collaborazione di Pierre Dumayel e Pierre Tchernia. Tutto svolgendosi alla presenza del presidente della Repubblica René Coty, con posti che costavano 35mila franchi ciascuno; l’incasso totale fu di 30 milioni di franchi. Le ventiquattro ragazze che svolgevano la funzione di “maschere” appartenevano all’alta società parigina e fra il pubblico erano presenti gli ambasciatori di Gran Bretagna, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, il comandante in capo delle Forze Atlantiche, il segretario generale della NATO e poi Rothschild, Alì Khan, la Begum, il marchese de Cuevas, Aristotele Onassis, Juliette Gréco, Martine Carol, Sacha Distel, Françoise Sagan, Charlie Chaplin, Brigitte Bardot, Martine Carol, Arletty. Al récital seguì un pranzo, servito nel foyer del teatro, al quale parteciparono 450 persone ed ogni coperto costava 15mila franchi. Il film di quella paradigmatica soirée, oggi restaurato con lusso inedito di colori e luci straordinarie, al di là dei singoli e alterni esiti delle pagine che ne componevano il programma (Norma, Barbiere di Siviglia, Trovatore, Tosca), invia un plesso di segnali talmente forti da potersi affermare che esso è al tempo stesso il punto d’arrivo e il punto di ripartenza di quell’aristocratizzazione del mondo dell’opera (sino a tutti gli anni Quaranta arte francamente popolare) iniziata con Visconti, identificata con la stessa Callas e poi proseguita (Strehler e Chéreau docent) se non fino ad oggi (siamo da tempo in controtendenza) certo fino a tutti gli anni Novanta.
L’imprevisto, prematuro declino dei mezzi vocali portò la Callas a trovare in una serie di raffinatissimi concerti in Europa e negli USA un’estrema, anch’essa inedita, dimensione d’arte, di mondanità e di glamour personale. La figura ormai da mannequin, gli abiti delle più grandi maisons parigine o milanesi, i leggendari gioielli, un porgersi con sempre maggior “scenica scienza” pur senza palcoscenico, costituirono con lei e per lei una stagione straordinaria. E l’ingresso definitivo nella categoria del mito vivente, ai cui piedi il Covent Garden o il Concertgebouw, Los Angeles e Madrid, New York e Amburgo si prostravano in estasi come davanti alla Sibilla o alla Pitia profetanti.
Non è un caso che per la sua Medea – ossia per la trasposizione cinematografica di un mito leggendario – Pier Paolo Pasolini abbia voluto un mito leggendario vivente. Appunto Maria Callas, di cui apparvero qui eccelse non solo la fisionomia e le doti attoriali, ma anche la recitazione in prosa (non venne doppiata che successivamente), densa d’accenti e lampi arcani e suggestivi. Un’ormai acquisita sfiducia in se stessa, prefiche e vestali d’incompetente malaugurio, fecero sì che questa strada non venisse proseguita. Così come non ebbero esito i progetti di Franco Zeffirelli per una Carmen e una Tosca cinematografiche, di cui peraltro venne magnificamente incisa tutta la parte musicale. Del resto molti critici specializzati, così come l’infallibile “sentire comune”, avevano da tempo decretato esser iniziato un “dopo Callas” ancora più netto e reciso del “dopo Caruso”.
La solitudine insonne di Avenue Georges Mandel a Parigi, la morte prematura nel 1977, fecero sì che il “fenomeno Callas” assurgesse in breve non solo alla categoria dei “rapiti anzitempo perché troppo cari agli dei” (come Thomas Schippers, pochi mesi dopo), ma ancor una volta a quella del “soggetto passivo”: o forse e definitivamente, a quella del soggetto, nell’accezione di argomento e di personaggio teatrale e cinematografico. Accezione che è la più recente e la più nuova dell’evoluzione della fenomenologia in parola: partita dalla mera critica d’arte, passata alla cronaca contemporanea, giunta alla fiction o, più rispettosamente, alla drammatizzazione per il teatro o per lo schermo.
Spicco indiscutibile ha avuto, in tal senso, la pièce di Terrence MacNally Master class (ispirata al ciclo di lezioni tenuto da Maria alla Julliard School nel 1971) andata in scena a Broadway nel 1995 con Zoe Caldwell, ripresa ovunque negli USA e in Europa, soprattutto in Spagna e a Parigi, qui con Fanny Ardant e la regia di Roman Polanski. Nel 1996 Rossella Falk ne curerà personalmente la traduzione in italiano, portandola in scena al Teatro Eliseo di Roma con la regia di Patrick Guinand, poi in più di trecento repliche in tutta Italia, sino a ottenervi il premio Eleonora Duse.
Assai più popolare apparve nel 2002 il film di Franco Zeffirelli Callas forever, ove di realmente degna di nota risulta solo la splendida interpretazione di Fanny Ardant in un ruolo che, anni prima, era stato pensato per Irene Papas. L’aveva preceduto un film incentrato sulla figura di Aristotele Onassis, Il magnate greco, in realtà non più che un’occasione per il talento di Anthony Quinn. Lo seguirà nel 2005 una miniserie televisiva italiana Callas e Onassis, d’invero provincialissimo afflato. Sì che al confronto (e non solo) spicca più che Duetto di Antonio Moresco, quel Maria Callas, lettere e memorie. Monica racconta Maria, per la regia di Tom Volf, tratto dallo spettacolo teatrale Maria Callas. Lettere e memorie, portato con notevole carisma da Monica Bellucci in teatro a partire dal 2019 e presentato alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Storia del cinema.
Nei primi giorni del recente ottobre, infine, numerose agenzie hanno battuto la notizia dell’inizio delle riprese del film Maria, con Angelina Jolie nel volto e nei vestiti della Callas. Le riprese sono tuttora in corso tra Parigi, la Grecia, Budapest e Milano. “Sono estremamente emozionato di iniziare la produzione di Maria, che, spero – ha dichiarato il regista Pablo Larrain – farà conoscere la vita e il lavoro straordinari di Maria Callas al pubblico di tutto il mondo, grazie all’eccezionale sceneggiatura di Steve Knight, al lavoro del cast e della troupe e, soprattutto, alla forte interpretazione e straordinaria preparazione di Angelina”. Il cast vanterà anche la presenza di Pierfrancesco Favino (Giuseppe Di Stefano) e di Valeria Golino (Jackie Callas).
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