Oggi cade un anniversario di nozze celebrate tanto tempo fa, in una delle più celebri e belle chiese romane. Riflettendo sul dolore in cui tante coppie scoppiate a noi contemporanee vivono il fallimento delle loro promesse sponsali, non ho potuto fare a meno, trovandomi proprio a Roma in questi giorni, di chiedermi cosa avrà mai consentito a Maria e Luigi Beltrame Quattrocchi non solo di “resistere” per tanti anni amandosi ininterrottamente, ma – addirittura – di trasformare questo loro sodalizio affettivo in una fioritura di santità.



Nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma subito sulla sinistra entrando nella cappella Cesi, poco prima della più nota cappella Sforza, opera del genio di  Michelangelo, si penetra in una penombra riposante in cui camminare in profondità, sino a quando, sulla parete a destra, in fondo, si scorge una targa. Essa ricorda a chi passa di lì, che, in quel luogo, un 25 novembre di ormai 117 anni fa, si celebrava un matrimonio. Per la precisione il 25 novembre 1905.



Lungo la millenaria storia della Chiesa, sono certamente innumerevoli i laici e i laici sposati, padri e/o madri, anche di numerosi figli (basti pensare a santa Margherita d’Ungheria, che di figli ne ebbe otto) riconosciuti degni degli onori degli altari.

Tuttavia, fu solo nell’ottobre del 2001 che un Papa, san Giovanni Paolo II, elevò a questa splendida dimensione – indicatrice di un Mistero che affiora nel quotidiano di tutti – due coniugi in quanto tali: santi esplicitamente per via di una vita vissuta come sposi. È possibile, senz’altro leggere la loro straordinarietà – riducendola paradossalmente però – attraverso la quantità di fatti “eclatanti” che a loro si possono ricondurre: quattro figli, tutti dedicati e consacrati al Signore – due monaci, una suora e una laica consacrata –; iniziative assistenziali e caritative innumerevoli; una costante partecipazione, approfondita e missionaria, a tantissimi mezzi di formazione per i fedeli di una Chiesa che attraversava gli sconvolgimenti degli anni post-unitari (e post-bellici: ben due guerre nell’arco di trent’anni).



Lei, nota per la pubblicazione di volumi dedicati al ruolo di madre e di pedagoga che spetta (spettava) sostanzialmente ad ogni donna; lui, dirigendo e fondando gruppi scout, allora novità assoluta e da interpretare in un’ottica cattolica per non copiare pedissequamente, considerata la provenienza da un mondo protestante; lavoratore inappuntabile e di qualità professionale elevatissima. E, ancora, la generosità di entrambi nell’ascolto e nell’aprire la porta della loro abitazione a chiunque bussasse per chiedere.

Tutto questo colpisce e ferisce la nostra mediocrità in maniera innegabile. Tuttavia, quello che di questa santità colpisce, parlo per me, è soprattutto il loro amore. Semplicemente, un amore. In un’altra vita sapremo se ci fosse una predestinazione particolare, una sorta di Dna geneticamente modificato all’eroismo in queste due persone che – ne sono convinta – faremmo un grande errore a voler considerare “fuori della norma”.

Sempre, quando si tratta di santi, la persona della strada tende ad assolversi da un confronto che potrebbe parere impietoso nei propri confronti, liquidando la santità in oggetto come “dono speciale” del tale o della talaltra finiti sopra un altare. In realtà questo atteggiamento erroneo e pure un po’ in malafede, in questo caso non sembra proprio concesso.

L’assoluta normalità delle cose vissute e condivise tra i due protagonisti di questa storia d’amore è così smaccatamente identica a quellaa che ognuno di noi può aver detto e condiviso con la persona amata nella propria di vita, che considerarli “speciali”, per assolvere noi stessi dal fatto di essere “solo” noi stessi, non funziona.

Non funziona, in particolar modo, pensare alla lunga durata temporale del loro matrimonio – poco meno di cinquant’anni, interrotta bruscamente solo dalla morte di lui – o  alla loro capacità di fedeltà totale, come pura conseguenza di aver vissuto “in un’altra epoca”. Sì, certamente era un’altra epoca, la loro, tuttavia, di quest’altra epoca, vanno capite le ragioni – forse meritoriamente proprio per essere così diversa dalla nostra – che permettevano a quasi tutti i matrimoni non solo di funzionare, ma di essere persino destinati a diventare luoghi di santità. Con o senza conclusione con gli onori degli altari.

Per spiegarmi tanta grandezza, mi sono dedicata – tra le altre cose – a leggere l’epistolario tra i due, a cominciare da quel lontano 1885 in cui, a seguire la promessa reciproca e privata tra di loro, nel giro di un mese ne veniva proclamato ufficialmente il fidanzamento, coronato nel giro di nove mesi nelle nozze. Quelle nozze di cui alla lapide sopra menzionata, in Santa Maria Maggiore.

Di sorpresa in sorpresa passando da una lettera ad un bigliettino, da una cartolina a un telegramma, la cosa che più colpisce è  la “tipologia” di cose, messaggi, promesse, sospiri che avevo rilevato – a suo tempo – nelle lettere scambiatesi dai miei nonni materni, esattamente coetanei dei due ora santi, ed esattamente nello stesso arco di tempo, nella stessa città, Roma. Sorrido sempre quando, al Verano, in visita alla loro comune tomba, leggo l’iscrizione che i figli avevano ritenuto di apporre per ricordarli sotto i rispettivi nomi. E, di tutto quello che si sarebbe potuto altrimenti narrare di loro il modo migliore, più appropriato ad futuram memoriam fu ritenuto essere: “Coniugi”.

Questa consapevolezza dei soggetti coinvolti, così descrittiva del loro essere nel caso dei futuri santi come  in quello – più ordinario – dei miei nonni, mi ha portato a rileggere le loro lettere.

Lettere  in cui l’impeto amoroso si fa veramente struggente, tanto da indurre gli autori stessi a prenderne sovente atto manifestando sinceramente una sorta di  vero stupore loro per primi. Forse sgomenti davanti ad un’inesorabile evidenza: quella del male lacerante che derivava ai loro cuori dallo scoprirsi, in quanto innamorati, non solo capaci di estasi, ma più propriamente non più padroni di se stessi. Ed, infatti, questo è l’amore: trovarsi spossessati dello stesso proprio cuore, di sé.

Nei due casi, comunque la nota dominante è la consapevolezza che tutta questa tempesta che si agita nel loro intimo non contenga in sé delle ragioni che superino quelle di un autocontrollo ferreo. In poche parole, la morale del tempo tronca alle radici l’ipotesi di una qualunque intimità dei due colombi durante il fidanzamento, e, per questa ragione, non ci si permette mai in alcun caso di prescindere da regole ferree di comportamento.

Allora ho realizzato che – forse – l’essere di un’altra epoca sia stato un “bonus”, per dirla con termini moderni, che possa, cioè, voler dire avere avuto attorno a sé, di fronte a sommovimenti amorosi che sconvolgono i cuori, un sostegno ed una tutela dall’amore stesso. Cosa che oggi non esiste più. Nulla di più esile ed abbandonato in balìa di se stesso di un sentimento che fiorisca nell’animo di qualcuno oggi, nell’età della piena “emancipazione” ed autonomizzazione del volere e del potere.

Volendo capire perché due persone potessero considerare il proprio matrimonio come un punto d’arrivo e di non ritorno come era la quasi normalità, in un’altra epoca, ho provato a trarre alcune conclusioni. Eliminando la banalizzazione operata da chi è contro il matrimonio per principio e ci vede, quindi, un vincolo in cui due si compiacciono di sacrificare se stessi ovvero – possibilmente – qualcosa utile a nutrire un reciproco risentimento profondo, anche se nessuno nega che la perversità umana permette spesso proprio questo, ho scoperto che in queste lettere di amore così palpitanti nonostante il “politicamente corretto”, dove mai una scivolata, un’allusione poco limpida, un permettersi la benché minima fantasia colorita si annida, sì, proprio qui, in questo rigoroso autocontrollo e freno emotivo, si trova il segreto del risultato, santi o non santi che si diventi.

Innanzitutto il loro sospirare costretti ad un’attesa altro non è che procrastinare la soddisfazione di un “bisogno” – insegnato come preliminare ad ogni formazione dell’io da qualunque manuale di psicologia – e ciò che permette alla pulsione di venir oggettivata e compresa in termini adeguati. Ma l’interposizione della sospensione dovuta al costringersi ad attendere, addolcita dalla soluzione consentita di scrivere lettere d’amore, è garanzia per la “salvezza” dell’individualità coinvolta e travolta. Questa sorta di “costrizione” a riflettere e a prendere le distanze da quanto ci sospinge nell’immediato è il compito tipicamente umano di nominare le cose per trasformarle in concetti e renderle poi gestibili, per  sé e per gli altri.

L’attesa, il sottostare alle norme del fidanzamento di una volta, potersi concedere al massimo di scriversi lettere su lettere, costringe a differenziare l’oggetto in quanto tale – l’altrui persona – dalla nostro desiderio di esso.

Per questo una volta, pur restando uno spazio, per talune coppie enorme, di possibile apertura delle crisi, difficilmente si sentiva dire – pirandellianamente –“Credevo di aver sposato un’altra persona”.

All’interno di quel limite – e dalla sua derivata creatività – imposto dallo scriversi lettere e basta, lo sforzo diventa quello di riconoscere le emozioni, facendo in modo, nominandole, di smascherare anche la loro volatilità. Quello che afferro e costringo su un foglio di carta con le mie riflessioni, diviene parte dell’io: di un io che, lentamente, cambia. Sono convinta che lo sforzo di costringersi a riflettere e oggettivare le proprie emozioni, come questi nonni regolarmente facevano, favorisse  il formarsi di vere e proprie nuove connessioni sinaptiche e neuronali. Dopo tanto elaborare e sfogare con la penna le loro ansie e la dipendenza reciproca, in un atteggiamento di attesa e procrastinazione, il loro io non era più semplicemente l’io di prima di incominciare a scrivere: una modifica stabile dell’autocoscienza di sé era a questo punto indotta.

In molti possiamo pensare a quei coniugi di un’altra epoca – che fortunatamente la mia generazione ha potuto conoscere – per i quali vivere lo scioglimento, nei casi migliori “solo” per causa di morte, equivaleva un’amputazione di una parte organicamente ascrivibile a sé.

Una conferma  per me è stata la lettura di La trama e l’ordito, uno scritto della beata Maria Beltrame Quattrocchi risalente all’anno successivo la dipartita del coniuge. Uno scritto, pur nel dolore che ne trapela, veramente consolante. Sì, quell’apparente mortificazione di un’altra epoca era un lavoro di costruzione, di strutturazione dell’io, non di pura “castrazione”, come  sbrigativamente si ritiene oggi. In quell’ascesi, più o meno forzatamente imposta dal clima generale, i due innamorati giungevano, senza saperlo, a formarsi quella che, in linguaggio psicoanalitico, si definisce “meta-rappresentazione”.

Io non sono più io e basta, ma ciò che tu mi offri di essere. La bellezza e la delicatezza che stavano alla base degli intenti “precettistici” di un’altra epoca, viene evidenziata da Maria, in una lettera –  per me commovente – scritta all’inizio del fidanzamento.

Non riusciamo a trattenere un sorriso di tenerezza, pensando e confrontando queste sue affermazioni con quello che è sotto i nostri occhi tutti i giorni. E anche un moto di tristezza riguardo il presente in cui ci troviamo, se rivediamo tanta povertà e piccineria umana – per usare un eufemismo – dei figli di oggi nei confronti di chi li ha messi al mondo. La ora beata Maria, con finezza, rileva il dolore arrecato dal fidanzato alla propria madre nell’aver improvvisato di presentarsi nientemeno che alla stessa ora e nello stesso luogo alla messa dove – in  confidenza – aveva scoperto si recava, con la mamma, la sua amata.

Ecco che la mamma di un’altra epoca arriva a piangere in piena messa, sia pure sommessamente e discretamente, per lo sconforto di vedere quell’alzata di ingegno di un fidanzato un po’ troppo focoso. Egli infatti – anziché attendere l’ora convenuta per la visita in casa – si permette di prendersi una libertà sconsiderata…

Maria – e qui non so chi di noi, mamme di oggi, non sentirebbe il cuore spappolarsi come per un riconoscimento meritato da tutte e comunque – esprime l’assoluta necessità per lei che il suo affetto per la madre – la figura “primaria”, quindi – non venga inteso in contrasto con quello per l’oggetto sì, d’amore, ma secondario, il fidanzato.

Psicoanaliticamente liberante se pensiamo a quante coppie cerchino spesso,  anche se inconsciamente, di pretendere o rinfacciare nel rapporto con il coniuge le soddisfazioni che non hanno – o creduto di non ottenere – ottenuto dalla madre.

Certo, in quell’epoca il padre non era ancora detronizzato e demonizzato, svaporato. Un padre che non abdicava al suo ruolo di padre, faceva sì che i figli non dovessero temere di amare le proprie madri, e nel contempo, non dovessero vergognarsi di amarle. Ed anche amarle fortissimamente, come Maria Beltrame Quattrocchi.

Lei che – con  madre e padre, oltre che con i nonni materni – ha serenamente convissuto assieme al marito e a ben quattro figli. Fino  a che  con l’età, uno ad uno, nonni e bisnonni se ne sono andati, a turno, al riposo eterno.

Purtroppo mi ritrovo a pensare che non solo è finita un’epoca, quell’epoca, ma è finita – forse – la possibilità di non aver paura di sé e dell’altro, di volere l’altro come e più di noi stessi. Che è il significato della parola amore.

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