“Quivi è la rosa in che ‘l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino”.

Con la presentazione della rosa per le labbra di Beatrice nel Paradiso (XXIII, 73), s’è già dischiuso lo scenario del finale “triunfo di Cristo”, ove arde “sopra migliaia di lucerne / un sol che tutte quante l’accendea” (ivi, 28-29), ove attraverso lo splendore delle anime beate splende l’unica luce della sostanza del Salvatore. Dante si dirige a quelle immagini e a quei motivi negli ultimi tre Canti del Paradiso, con acribia teologica, bellezza pittorica e risonanza concettuale senz’altro sublimi.



Il simbolo della rosa riferito a Maria ha importanti precedenti alle spalle dell’Alighieri. Se nell’Egitto dei faraoni la rosa era il fiore sacro alla dea Iside, se essa forse prende il nome da Rodi, l’isola sacra sia a Venere che a Minerva, non stupisce che proprio dall’Oriente giungano le prime identificazioni del prezioso fiore con la Madre del Redentore.



L’arabo cristiano Giovanni Damasceno già nel VII secolo ne scrive: “O rosa germinata tra gli Ebrei che hai di tua fragranza imbalsamato la terra”. E forse gli è ancora precedente quel “Tu sei la rosa desiderabile e pura” che si legge nel Fanqito o “Breviarium iuxta ritum Ecclesiae Antiochenae” attribuito a Giacomo di Edessa (+708). Per Rabano Mauro (780-856, che Dante ben conosce) Maria è il cespuglio di rose, anzi il roveto ardente da cui Ella “fece germogliare il Salvatore come una rosa”. Per Eusebio Bruno (+1081) è invece Lei stessa “la rosa nata dalle spine”.

Forse il luogo ove alla rosa si tributò maggior gloria, prima di Dante, non è un luogo teologico-poetico, ma una serie di siti teologico-architettonici: ossia alcune grandi cattedrali gotiche francesi e in specie quella di Chartres. Non crediamo utile tanto ribadire a che punto la scuola di cultura qui a lungo viva sia stata un’interfaccia insostituibile tra il mondo filosofico e figurativo classico e arabo da una parte e quello cristiano dall’altra; quanto additare che è prima a Laon, poi a Parigi, quindi a Chartres, a Reims e ad Amiens che viene edificata una serie di grandiosi templi cristiani dedicati a Maria, a “Notre-Dame”, nei quali prendono gloriosa evidenza sia il portale, sia soprattutto il rosone, non solo come elemento architettonico, ma come simbolo pregnantissimo. Quelle immense finestre a forma di rosa sono Maria stessa attraverso cui la luce, ossia Cristo, entra fra gli uomini illuminando di sé i personaggi, le storie, i simboli che vi sono raffigurati. Non è un caso che Pietro il Venerabile (1092-1156) poco più di cinquant’anni prima di Chartres chiamasse Maria “finestra, porta, vello, recinto, casa, tempio, terra, giglio di verginità, rosa a motivo del martirio […] aurora che precedi il sole”.



Ancora Martino di Léon (+1123) dice che “Ella spande soavi profumi tra i suoi vicini come una rosa fragrante” e che “alla stregua di una rosa che decora i cespugli spinosi, così Ella ha decorato la Giudea, anzi la Chiesa universale”. Alano di Lilla nel Sermone sulla Beata Maria compie un viraggio mariano di Sir 39,17: “Et quasi plantatio rosae in Jericho”. E la “rosa di Gerico” da millenni era ammirata come l’unica pianta capace di dissetare i viaggiatori lungo le carovaniere del deserto.

L’identificazione della rosa in Maria è ancora al centro delle soavi melodie delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso el Sabio (XIII sec.), del leggendario codice musicale di Bamberga, dei Miracles de nostre Dame di Gautier de Coinci. Ed è tema saliente dei Sermones di papa Innocenzo III e del Salterio della Beata Vergine Maria di Engelberto di Admont (+1331). Non è infine inverosimile che possa aver avuto un’influenza diretta sull’Alighieri un cistercense francese, Elinando di Froidemont (1160-1212 o 1229), autore di un famoso Chronicon nel quale non mancano pagine di devozione alla Mater Christi. Questo suo piccolo trattato sulla rosa, naturale e mistica, è di singolare minuzia poetica:

“Si suole raccomandare la rosa per una duplice vantaggio, cioè per la bellezza e per l’utilità. La bellezza si vede dal colore e dalla forma. Il colore roseo diventa notevole quando le foglie si accendono della grazia infiammata del colore rosso. Fa eccezione quello strato di biancore sottilissimo e alquanto oscuro che riluce nella parte inferiore, presso le radici delle foglie. […] La forma della foglia diventa allora di compiuta bellezza quando le foglie stesse non rifuggono dall’apparire del tutto chiuse, né si stancano di ripiegarsi languidamente […] Questa è la bellezza materiale della rosa: ora consideriamo la rosa mistica. Quel sottile biancore presso le radici delle foglie significa la perpetua purità di cuore presente nella Vergine, per così dire, fin dal primo sorgere degli affetti; purità che procede come da radici di foglie […] purità che ella ha sempre conservato perfettissimamente integra e che ha progredito fino alla purezza della perpetua incapacità di peccare”.

Dante amplifica il simbolo della rosa in modo probabilmente unico – se non vi fossero Chartres e le altre – nella cultura medievale. La rosa è, certo, la Madre di Cristo: ma è anche l’intera schiera dei beati, che “si distende in circular figura, / in tanto che la sua circunferenza / sarebbe al sol troppo larga cintura” ( Par. XXX, 103-105), in “rosa sempiterna” e si dispone in “mille soglie”, in innumerevoli foglie a mo’ di gradini, nelle quali scende copiosa la luce del “mobile primo”, luce fisica e insieme luce di grazia. “E se l’infimo grado in sé raccoglie / sì grande lume, quanta è la larghezza / di questa rosa ne l’estreme foglie!” (ivi, 115-117).

Il Canto XXXI s’apre anch’esso nel nome della rosa:

“In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa” (vv. 1-3).

Il Medioevo non è avaro di collegamenti fra il sangue del Redentore e la rosa: quello uscito misto ad acqua dal costato è il “sanguis rosaceus” e la rosa è anche icona del calice a forma di rosa che accolse quel sangue, il santo Graal; e le stesse gocce del sangue di Cristo cadendo in terra si trasformano in rose. Il sangue dei martiri è causa dello sbocciare di rose, sì che Hildegarde von Bingen canta “Vos flores rosarum, / qui in effusione sanguinis vestri / beati estis”. Il sangue sparso infine è sangue che unisce, che accomuna le moltitudini: dalle cento figure della Rosa di Sharon nel Cantico di Salomone, alle miriadi di coloro che “hanno lavato le vesti nel sangue dell’Agnello” nell’Apocalisse giovannea.

La sottigliezza ed insieme la pregnanza delle armonie nella terzina dantesca sono tra tutti stupefacenti: se Maria è “la rosa in che il Verbo divino carne si fece”, la “milizia santa” è anch’essa rosa perché con il suo sangue Cristo l’ha sposata. Cristo si fa carne nella rosa materna e i beati si fanno rosa nel sangue di Cristo. Carne e sangue – materia unica dell’incarnazione – sono linfa e petali della rosa della redenzione. Il sangue di Cristo, allora, non fu versato invano, se nella Rosa che Esso forma e nutre, essendone Figlio, s’invera l’evento della salvezza. E Maria, colei che vi ha dato materia, è la beata dei beati, come la “paradisiaca costa” è una rosa sbocciata dall’orto mistico del suo seno. Ella è la “donna del cielo” che siede al sommo della “circular figura”. È Colei che Alfonso el Sabio canta come la

“Rosa das rosas e fror da frores,
Dona das donas, sennor da sennores”

Lo spalancarsi totale della visione della rosa mostra i beati che planano delicatamente sui petali “quasi apes negotiosae inter alvearia et flores” ed hanno il viso color fuoco, le ali d’oro, le vesti candide, secondo i colori della Trinità. La Vergine, la coautrice della redenzione, è la nuova Eva, giustapposta alla prima nel centro della rosa:

“La piaga che Maria richiuse ed unse,
quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi
è colei che l’aperse e che la punse” (ivi, 4-6).

È questa una terzina che sintetizza, in un anacoluto che è tra i più espressivi della nostra letteratura, la mariologia d’una figura essenziale nel Paradiso dantesco: S. Bernardo di Chiaravalle. E sono il trattatello In laudibus Virginis Matris e i Sermoni per l’Annunciazione di quest’ultimo la fonte da cui probabilmente Dante attinse e travasò nella Comedia. La cagione è per il cistercense il peccato originale. La soluzione è la missione del Verbo, l’incarnazione. “Ed è per questo che Dio ha bisogno di Maria: essa è il mezzo – la mediazione – attraverso la quale si realizza l’incarnazione […] In questo senso Maria ha, realmente, una parte nell’opera della salvezza universale […] essa è Madre di Dio per il bene di tutti i figli di Dio”. È per questo che Dante vuole che nella rosa mistica si ripeta eternamente viva la scena dell’annunciazione (che in Purgatorio X, 34 e ss. era una sorta di immobile affresco), quale momento germinativo dell’incarnazione e della redenzione.

Ed è per questo che a S. Bernardo è affidata, all’inizio dell’ultimo Canto, la preghiera più alta dell’intero poema sacro: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio”… Crediamo che due siano gli antecedenti di versi tanto famosi: la Preghiera a Maria Regina di Bernardo stesso, incastonata nel suo Sermone sull’Avvento (2,5) e il Salve Regina. Questa naturalmente come modello di quello: “Il Salve Regina […] esisteva prima di Bernardo come una di quelle suppliche nelle quali si faceva appello, si “chiamava” – ad te clamamus – verso il sovrano o la regina, verso Dio o Maria […] con un vocabolario che, nella società dei suoi tempi, aveva un senso preciso, quello della feudalità […] Conforme a una realtà antropologica profonda […] colei che ha dato la nascita a un sovrano può esercitare su di lui un certo potere […] può intervenire presso di lui a favore di tale o talaltro dei suoi sudditi o di tutti” (J. Leclercq, Bernardo di Chiaravalle Vita e Pensiero, Milano, 1992).

E “Signora” la chiama Bernardo e “donna” e “regina” Dante, che nel Purgatorio (v. 82-84) la prece più antica aveva circondato di versi non dimenticabili: “Salve, Regina in sul verde e ‘n su’ fiori, / quindi seder cantando anime vidi, / che per la valle non parean di fuori”. E dunque Lei è suprema istanza di preghiera e di tramite: “O nostra Signora, o nostra mediatrice, o nostra avvocata […] per la tua intercessione” […] (Bernardo); “qual vuol grazia ed a te non ricorre, sua disianza vuol volar senz’ali” (Dante). La grazia scorre attraverso di Lei come “fontana vivace” (Dante) come “acquedotto” (Bernardo). E per Lei si giunge ad essere “partecipi della […] gloria e della […] beatitudine” di “Cristo Gesù, Figlio tuo e Signore nostro” (Bernardo) che è l’esito massimo della salvezza per il Santo e per il Poeta. La contemplazione mistica, l’“imparadisarsi” è per il cistercense la grazia somma concessa dal Figlio per il mezzo della Madre. Per l’Alighieri la superna iconostasi divina finale è l’esito della preghiera in suo favore rivolta a Maria da Bernardo, da Beatrice e dai Beati della rosa in un ineffabile cerchio di mani giunte.

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