La tragica morte di Pier Paolo Pasolini nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia fu uno di quegli avvenimenti che segnarono una generazione. In chi, come chi scrive, era un ragazzo a metà degli anni Settanta, destò un’impressione violenta e per certi aspetti non dimenticata. Conservo ancora la prima edizione di Scritti corsari in cui dal retro di copertina si affaccia il volto del poeta: duro, con lineamenti marcati, da sembrare scolpito nella pietra. Al mito del poeta suicidato – Pavese – si sostituì per noi il mito del poeta assassinato.



Anche Biagio Marin, il grande poeta di Grado, allora ottantaquattrenne, ne fu turbato. Lasciò passare qualche giorno, poi, come accade ai poeti, il dolore si trasformò nella scrittura: ne nacquero tredici splendide liriche, che oggi rileggiamo in un prezioso libretto edito da Quodlibet: El critoleo del corpo fracassao – Lo scricchiolio del corpo fracassato – Litanie in memoria di Pier Paolo Pasolini, tradotti da Ivan Crico, con estratti dai diari inediti di Marin, curati da Pericle Camuffo. Marin doveva molto a Pasolini: era stato lui a trarlo dall’ombra, dapprima inserendolo nell’antologia Poesia dialettale del Novecento del 1952, poi scrivendo la prefazione a Solitàe, una raccolta di poesie di Marin del 1961 ed ancora nel 1970 la prefazione a La vita xe fiama.



Da quel momento, la critica italiana si accorse della grandezza di Marin, tanto che si può parlare di una storia della critica mariniana pre e post Pasolini. Tutte le osservazioni di Marin su Pasolini, sparse nelle lettere e nei diari, ancora in gran parte inediti, svelano profondo disagio ed anche imbarazzo: da una parte riconosce che a lui “si dovesse la comprensione più profonda della sua poesia”, come scrive Elvio Guagnini; dall’altra, c’era nell’opera e nella figura stessa di Pasolini qualcosa che gli appariva incomprensibile, fastidioso e perfino ripugnante. Marin non capiva Pasolini, mentre era accaduto il contrario. La forma mentis di Marin era quella di un intellettuale di provincia, nato nel 1891 in una Grado ancora asburgica: rispetto a Pasolini apparteneva ad un’“altra specie”, ad “un’altra famiglia”.



Come sottolinea bene Camuffo, non era una questione estetica a dividerli, ma etica. Le pietre d’inciampo erano due: il marxismo e l’omosessualità. A Marin, Pasolini sembrava un marxista che viveva da borghese, sfruttando l’aria di scandalo che proveniva dalle sue opere per avidità di denaro e di benessere; la sua torbida vita sessuale gli sembrava la causa diretta della sua rovina.

Nelle sue riflessioni, il poeta di Grado cerca di fare quadrare il cerchio: definisce Pasolini un uomo geniale e gli appare addirittura un poeta maggiore di Montale e di Ungaretti: “era più vivo di loro. La sua pederastia gli è costata la vita, e ha ombrato la sua opera”. Scrive nel diario l’8 novembre 1975: “Io non ero d’accordo con la sua pederastia, e non con il suo ingenuo comunismo, e non con il suo bisogno di scandalizzare la brava gente con i suoi film e anche con i suoi scritti. Conoscevo e amavo in lui l’uomo fine, delicato, buono. L’amore per sua madre mi ha sempre commosso. Le sue poesie in friulano mi sono parse sempre molto belle”. Ed ancora, pochi giorni dopo: “aveva insomma tutte le doti, per essere un grande letterato e un grande uomo. Gli è mancata l’armonia della persona; e la sua sessualità anormale e scatenata lo ha travolto nel fango e nella tragedia”.

I versi che Marin scrisse per Pasolini superano di slancio, con la forza della poesia, i limiti e i pregiudizi della sua cultura. Li ha scritti per tentare di liberarsi “dalla pena che ho in cuore”. Il titolo, splendido, traduce fonicamente la tragica antinomia che segnò la vita di Pasolini: nella parlata gradese, “il termine critoleo indica, precisamente, lo scricchiolio continuo che si sente calpestando sul bagnasciuga le conchiglie”; il deverbale fa pensare a qualcosa di fragile e prezioso; il participio fracassao al crollo rovinoso di quella vita.

Le poesie hanno la cadenza liturgica delle litanie e il tono sommesso dell’elegia: il poeta assassinato non ha saputo sciogliere “l’oscuro / groviglio” (el gropo duro) che lo assillava: “Eppure c’era la luce del sole / nei tuoi giorni. I canti / dell’usignolo e l’oro / risplendeva degli incanti”. Lo sguardo di Marin si volge alla terra friulana, che incantò il suo perduto amico, tanto da ispirargli i versi giovanili di Poesie a Casarsa: “Nostra terra friulana / la più bella che vi sia, / dolce la tua magia / mantiene l’anima sana”. È un “Friuli beato, / di fiumi e di rogge / che i desideri conosce / del cielo immacolato. / Perché, fratello, / l’hai lasciato? / Per te il sesso sfrenato / un mortale ritornello”.  La sua colpa è stata quella di lasciare il Friuli, “il paese di temporali e di primule”, come si intitola il libro di Nico Naldini che raccoglie gli scritti friulani di Pasolini: “poi tu ti sei perso / in un mondo lontano, perverso”.

Il poeta di Grado ha seguito i funerali dell’amico a Casarsa: “Siamo ritornati nel Friuli / dalla terra distesa, / le montagne incantate / come una chiesa, / torbidi nel cuore e soli. // Lungo le strade / in paesi splendenti, / si muovevano uomini lenti / nel sole, e allegre / ragazze innamorate”.  Ora, finalmente, Pier Paolo è in pace, nella terra madre che lo accoglie: “Adesso / il tuo tormento di ossesso / è finito, / nell’aria svanito. // I venti passano calmi / sopra la terra in sogno; / le rogge cantano salmi, / l’aria ha il profumo / del melo cotogno. // Quando in cima arrivi / là sotto la pianura / è ricca di case, / di uomini in pace”. Il canto d’amore nato a Casarsa “si fece disperato, / diventando pianto e grido: / invocazione al Dio / mai più incarnato. / Poi, la rivolta: / la notte cupa ancora ascolta, / nel deserto di un prato, / lo scricchiolio / del corpo fracassato”.

Nella voce di Marin vibra la sua corda più vera, quella della pietas e insieme del giudizio: “Io ero fatto in altro modo: / con te avevo in comune Dio, / al di là del mio diverso nido, / del cibo e dell’amore di cui godo. // Ma Dio in comune è tanto! / è il cielo sopra gli alberi diversi; è l’alto fine del canto / e la ragione ultima dei versi. / il mio canto con il tuo si confonde: / sulla linea del canto siamo nudi, / e più non contano oggi o ieri, / il mare è uno, con le sue tante onde”.

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