La stagione di condivisione e di europeismo impersonata da Mario Draghi apre, o per meglio dire potrebbe aprire, una vera e propria prateria per un partito che intendesse replicare in Italia la “visione” e la collocazione della Cdu tedesca di Angela Merkel. Uno spazio enorme che viene lasciato, da un lato, dall’analfabetismo costituzionale che caratterizza gran parte della classe dirigente del centrodestra (coalizione che non a caso fa fatica a ritrovarsi sul piano amministrativo quei consensi che pure detiene sul piano politico e della pubblica opinione). E dall’altro dalla incapacità del centrosinistra di affrancarsi da quelle battaglie ideologiche che appassionano una piccola parte dell’elettorato, ma diventano la bandiera irrinunciabile da sventolare. Anche per non farne niente, solo per marcare il territorio, con il risultato di mettere in seria difficoltà la componente cattolica e moderata che pur apprezzando il maggiore senso istituzionale che mostra il Pd, non riesce a sentirsi a casa sua nel centrosinistra.
Fra i vari movimenti “work in progress” che si collocano in questa direzione, viziati sovente da una componente di velleitarismo e personalismo, il tentativo di riaggregazione dei Popolari portato avanti dall’ex ministro della Difesa Mario Mauro e dall’ex deputato Giuseppe De Mita presenta alcune caratteristiche interessanti. L’ex ministro della Difesa e il politico avellinese hanno da qualche mese iniziato a girare l’Italia presentare il loro libro, La bellezza della politica popolare (Rubettino 2021). Un libro agile (102 pagine) articolato come una doppia intervista pubblica, a cura della scrittrice Rossella Daverio.
Il titolo è già tutt’un programma: non si può riprendere a far politica prescindendo dal gusto e dalla bellezza del mettere la propria passione e le proprie competenze al servizio del bene comune. Un impegno che nasce dal territorio, ecco la prima caratteristica di questo tentativo, rispetto ad altre proposte viziate da un’idea centralista che si vorrebbe poi irradiare in periferia. Eppoi spicca il carattere inclusivo e per nulla auto-referenziale di quest’iniziativa, che intende porsi in ascolto, mettendosi in cammino con altri che sono mossi dalla stessa passione e dalle medesime coordinate di partenza.
Due parole innanzitutto sugli autori o, se si vuole, sugli intervistati. Entrambi vengono – appunto – dal territorio, dal Sud di provincia, ma si sono poi formati a Milano. Giuseppe De Mita, irpino originario di Nusco (come lo zio, sindaco del centro irpino e leader storico della Dc) laureato in giurisprudenza alla Cattolica, è stato vicepresidente della Giunta regionale campana e poi deputato nella XVII legislatura. Avvocato e consulente, oggi lavora presso la Regione Campania quale responsabile del cruciale Nucleo per la valutazione e verifica degli investimenti pubblici, in particolare legati al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Mario Mauro, foggiano d’origine e milanese d’adozione, è laureato invece in filosofia. Membro del Parlamento europeo per tre legislature, è stato per dieci anni vicepresidente a Strasburgo. Nel 2013 fece parte del gruppo di lavoro per le riforme istituzionali promosso dal presidente Giorgio Napolitano. Lo stesso anno fu nominato ministro della Difesa. Oggi dirige la società di consulenza strategica e relazioni internazionali Meseuro e l’omonimo Centro studi.
Il libro si inserisce in una fase, l’attuale, in cui il populismo tenta di rendersi “popolare”. Matteo Salvini, Matteo Renzi e Giuseppe Conte sono “populisti obbligati” nella definizione che ne dà Mauro, “che aspirano a convertirsi, a parole o a fatti, al popolarismo”. Popolarismo e populismo, d’altronde, annota De Mita, “entrambi considerano imprescindibile il rapporto con la gente”. La differenza è che, “nella pratica, il populismo lo interpreta in chiave strumentale e demagogica. Il popolarismo lo fa proprio cercando di costruire prima una cultura di comunità e poi una cultura di governo”.
Nel celebre discorso di Caltagirone, Luigi Sturzo invitò a staccarsi “da una concezione clericale” e dall’idea che i cattolici in politica fossero “un’armata permanente delle autorità religiose che scendono in guerra guerreggiata”. Paradossalmente questo partito-che-non-c’è porterebbe una spinta di laicità nell’attuale panorama politico in cui il Parlamento tende sempre più a legiferare “su temi che prevedono decisioni di ordine etico, in altri tempi parte integrante della responsabilità di ogni persona e della comunità con cui si identificava”.
Non clericale, quindi, né rivolto al passato. Viceversa, nell’analisi di Mauro e De Mita, è il sovranismo il modello che insegue un passato anacronistico. “Solo chi è illuso o ipocrita può oggi promuovere senza arrossire un modello sovranista”, sostiene senza mezzi termini, nella prefazione, Francescomaria Tuccillo, avvocato e penalista di origini napoletane. Questo progetto, invece, guarda al futuro e all’Europa come “la più originale prospettiva di futuro di cui disponiamo”.
Dunque, per Mauro, l’orizzonte cui guardare è lo stesso di Draghi, l’Unione Europea, tanto più ora che, di fonte alla crisi pandemica, ha saputo mettere da parte “l’irrealistico patto di stabilità”, stanziando una cifra record “destinata a sostenere i suoi Stati membri nel quadro del piano Next Generation Eu, di cui l’Italia – ricorda Mauro – è il primo beneficiario”. Per cui, “ora occorre siano impiegati davvero a favore del bene comune”, auspica, in modo da “consegnare alle prossime generazioni un Paese più moderno all’interno di un’Europa più solidale”.
La condizione in cui versa il nostro Paese è gravata da due dati record, denatalità e oppressione del debito pubblico, che pesano sul futuro dei nostri giovani come un macigno. In questa situazione, “dar vita a una rete popolare ci sembra vitale”. Un compito, per Giuseppe De Mita, che “prima di essere politico, è storico e culturale”.
Ma occorre “evitare la diabolica tentazione di creare partiti snaturati: partiti-Stato, partiti padronali o partiti concepiti solo come comitati elettorali”. Un partito invece che sia, semplicemente, un insieme di cittadini che “si associano liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica”.
Il centro, più che una collocazione geometrica, rappresenta la scelta di un metodo, alla ricerca di un “punto di equilibrio avanzato” che sappia conciliare libertà e giustizia sociale. Ma per collocarsi dove, alleato con chi? In realtà, “più che essere di sinistra, di centro o di destra, il popolarismo può considerarsi moderato poiché crede nella ‘radicalità’ del cambiamento degli squilibri sociali esistenti, ma praticandola con quella ‘razionalità’ che è necessaria per renderla possibile”. Il “centrismo” ha invece a che vedere con “le condizioni storiche e all’opportunità politica”, che per De Mita vanno valutate di volta in volta.
Un metodo che deve ispirare anche la gestione di uno dei temi più divisivi che l’Italia e l’Europa hanno di fronte, quello dei migranti. Un tema “prima di tutto di ordine umanitario”, e “il grado di intelligenza, preveggenza e compassione di cui sapremo dar prova – per Mauro – dirà molto di noi: di chi siamo come italiani, come europei, come persone impegnate in politica e, soprattutto, come esseri umani”.
Il primo passo da compiere, allora è occuparsi seriamente del vero partito italiano di maggioranza relativa, l’astensionismo, e delle ragioni che lo hanno alimentato. Le scelte possibili sono solo due, tertium non datur. “O si prendono le distanze rifugiandosi nella vita privata e in un’astensione amara, sorda e rancorosa, oppure ci si mette in cammino attraverso un campo arato molti anni fa, ma da troppo tempo abbandonato”. Occorrerà quindi una “lunga marcia”, con numerose tappe intermedie, alleanze da cercare, tentativi da sperimentare: “Là dove ci sono liste popolari, occorre sfuggire la diabolica tentazione di fare una scelta sulla base del pronostico che indica l’eventuale vincitore. La nostra presenza, se lo facessimo, sarebbe ridotta a pura cortigianeria”, per De Mita. Occorre una “rete di amicizie territoriali, che in alcuni casi rappresentano comunità significative e in altri sono invece competenze specifiche, per esempio figure di intellettuali o professionisti che possono diventare catalizzatori di cultura e di riflessione condivisa”. Nello spirito di una “assoluta flessibilità e assoluta coerenza”, come sostenne Aldo Moro in uno dei suoi ultimi discorsi, ai gruppi democristiani di Camera e Senato, il 18 febbraio 1978, pochi giorni prima del suo rapimento.
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