“Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”: in una lettera del 3 gennaio 1933, Emmanuel Mounier scrive queste parole a Paulette Leclerq, la donna che, successivamente, sarebbe diventata sua moglie. Durante la malattia della figlia Françoise e dopo la sua morte, il filosofo francese afferma che se qualcosa può vincere il dolore è necessario che accada lì, nel luogo dove la morte rivendica l’ultima parola sulla vita: la carne. In un mondo in cui il dolore è nascosto o lo si tenta di anestetizzare in ogni modo, la posizione di Mounier rivela un’umanità intera e affascinante, che non cerca un distacco stoico e nemmeno una cieca accettazione, bensì una passione all’esistenza nella sua interezza.



La stessa posizione domina “Maryam”, lo spettacolo scritto da Luca Doninelli, in scena il 18 e 19 dicembre al Teatro Oscar deSidera di Milano. Il testo di Doninelli vede protagoniste tre donne musulmane: Zainab, Intisar e Doha. Ciascuna porta con sé un dolore troppo grande per essere taciuto: un dolore che le conduce fino a Nazareth, per pregare e affidare la loro sofferenza a Maria, l’”eletta su tutte le donne del creato” (Sura 3, 42).



“E io ogni notte muoio con lui, madre, e mi desto solo per morire di nuovo dopo poche ore, e ogni giorno è per me come la vigilia di una condanna a morte”. Sono le parole di Doha, a cui ogni notte compare in sogno il figlio: rinasce, per poi subito morire nuovamente inghiottito dalle acque. Il ragazzo, scappato su una barca assieme al padre per raggiungere l’Italia, ora non c’è più. Quale può essere la speranza di una madre che vive ogni giorno al cospetto della morte del proprio figlio? “Tu lo sai dov’è, adesso?” chiede la donna a Maria.

Intisar, giunta dalla Siria, piange la follia della madre Amira, che nel campo di Yarmuk ha perso la ragione e vaga per la città, dove, imperterrita, continua la guerra. Il fratello di Intisar, Fouad, un ragazzo alto e bello, studiava all’università prima di farsi esplodere nella piazza del mercato; da quel giorno la madre non fa che cercarlo senza sosta, come un fantasma. Cosa resta della famiglia, chiede Intisar a Maryam, se il padre e il fratello sono morti e la madre vaga senza meta? “I desideri più grandi che ho nel cuore non si possono realizzare” dice la donna, straziata dal dolore. Il padre e il fratello non gli verranno restituiti e la madre non sorriderà più.



Come vivere ancora? Cosa può cancellare il dolore? Questa è la domanda che porta le tre donne fino a Nazareth. Ma ecco, dove ci si aspetterebbe un intervento risolutivo, una risposta granitica, interviene invece una voce scandalosamente ferita, segnata da un inguaribile dolore: chiamando ciascuna donna per nome, Maryam svela infatti tutta la sua umanità, la sua natura spezzata di donna e madre, confessando di non aver mai perdonato Dio per la morte del figlio: “quella ferita rimane intatta”.

Cos’è che permette, allora, di vincere una simile ferita? Chi può resistere al dolore?

L’ho chiesto all’autore, seduti al tavolo di un bar dello Iulm, dove insegna drammaturgia. “Gesù non è Socrate”, mi dice. Parla piano, riflette, ma nella sua risposta non c’è l’ombra di un’esitazione. “Prima di morire, il filosofo era già sul carro del vincitore: Cristo invece muore solo, sconfitto sulla croce, urlando al padre che non risponde”. È questo il mistero che afferma Maryam: l’onnipotenza dell’Amore e, al contempo, la sua assoluta impotenza. Dio, che può ogni cosa, ha guardato suo figlio morire e non ha fatto nulla. Occorreva che il corpo del Dio fatto uomo morisse perché la verità rinascesse dalla carne.

Cosa spinge donne come Zainab, Intisar e Doha a rivolgere a Maria le proprie preghiere? Cosa le attira fino a Nazareth? Forse proprio questo misterioso scandalo: una donna, una madre che non nasconde le ferite e non ha paura di offrire tutto ciò che ha. Il suo bacio, la sua carezza. La promessa di Maryam non cancella nulla: nulla è dato per dimenticare o alleviare il dolore. Quello che offre, invece, è un luogo: una carne, dove ogni cosa possa rinascere senza fine.

“Per sempre voi sarete con me, nel cuore del mondo, là dove nessun figlio muore”.