C’è chi sacrifica le vite degli altri con lo sguardo pietrificato dall’idolo del potere e chi invece sacrifica la propria vita con lo sguardo fisso a un amore infinito. La vita di Mat’ (madre) Marija (Riga, 1891-Ravensbrück, 1945), al secolo Elizaveta Jur’evna Pilenko-Skobcova è stata un attraversamento drammatico di tempi tormentati da avvenimenti terribili e tragici. Un’esistenza personale segnata da tanti fatti dolorosi. La morte del padre a soli 49 anni nel 1906. La perdita in guerra di un suo convivente e del fratello Dmitrij. La morte nel 1926 a soli quattro anni della figlia Anastasija per meningite. E poi la morte nel 1936 della figlia Gajana a 23 anni per tifo. E nel mezzo una storia accidentata, piena di macrostoria e densa di vita palpitante nell’occhio del ciclone. La frequentazione del poeta Blok, l’iscrizione al partito social-rivoluzionario e una militanza coraggiosa che la portò alla lotta contro i bolscevichi, poi a una condanna da parte di un tribunale bianco, due matrimoni, la rivelazione di una maternità diversa dopo la morte della figlia, l’importante presenza nella sua vita di padre Sergej Bulgakov, la scelta di una vita monacale nel mondo. E la fondazione con altri grandi esuli dell’emigrazione russa dell’Azione ortodossa. Una casa a Parigi in rue de Lourmel che divenne centro di irradiazione di una vita nuova, capace di amare e accogliere. E un luogo di comunione viva e creatrice con il saggista Konstantin Močul’skij, autore di studi su Dostoevskij e Solov’ëv o altre personalità eminenti come il filosofo Nikolaj Berdjaev, lo storico Georgij Fedotov e Il’ja Fundaminskij, vicino in gioventù ai circoli rivoluzionari, poi rifiutatosi di fuggire in America per stare con i suoi confratelli ebrei e vivere la loro stessa sorte.
Sergej Hackel in Elizaveta Jur’evna. Rivoluzionaria, martire, monaca (Paoline, Milano 1988) racconta che Mat’ Marija amava ricordare una leggenda russa riguardante San Cassiano e San Nicola il giusto tornati sulla terra. I due santi videro un contadino il cui carro si era impantanato nel fango, bloccandosi. Alla richiesta d’aiuto dell’uomo, Cassiano si ritrasse, dicendo che presto avrebbe dovuto far ritorno in cielo. San Nicola, invece, in silenzio, si immerse nel fango per aiutare l’uomo. E così fu la vita di Mat’ Marija. Un’immersione nelle vite degli altri, fino ad accompagnarli nella sofferenza più profonda e intima. Una discesa nei luoghi più drammatici del pantano umano con la certezza che nessun posto può sfuggire al Bene ultimo. Per la poetessa, canonizzata nel 2004 dal Patriarcato di Costantinopoli, infatti, è la vita che è sempre più forte, perché in essa pulsa l’eternità. “No, morte, non te amavo. / Ma quanto è di più vivo al mondo: l’eternità. / E quanto v’è di più mortale al mondo: vivere”.
Mat’ Marija ricordava, spesso, anche la frase di un contadino della regione di Perm’, ospite di un ospedale psichiatrico. L’uomo aveva vissuto una brusca interruzione del suo tempo lento e poi un terremoto esistenziale. Precipitato nell’inferno della guerra aveva visto di tutto: pallottole, corpi distrutti, insensatezza morale. “Io sono sano, è la vita che è impazzita”: questa l’espressione della sua esperienza tradita e ferita.
Ma cosa bisogna fare quando la vita impazzisce? Quando l’uomo diventa una bestia nei confronti del suo simile? Per Mat’ Marija la scelta diventa radicale. La sua sensibilità intercetta, infatti, la catastrofe imminente: “la cultura è finita. Stiamo entrando in tempi escatologici (…). Possibile che non sentiate che la fine è vicina, alle porte?” (S. Hackel, cit.). In un tempo escatologico non basta più la vita di prima. Bisogna lasciare spazio all’altro, abbandonando la terra ferma e la comodità prima conosciuta, magari fondata su una pia religiosità o sui primi posti sulla scena del mondo. “Ci sono due modi di vivere:/ Camminare sulla terra ferma/ Facendo solo ciò che è giusto e rispettabile,/ E così misurare, soppesare, prevedere./ Ma si può anche camminare sulle acque/ E allora non si può più misurare e prevedere/ Ma bisogna solo credere incessantemente/ Un istante di incredulità e s’incomincia ad affondare” (S. Hackel, cit.).
Il suo cuore cambia ancora, perciò, diventando indomabile, totalmente donato e senza riserve. Pronto a tutto per tutti, fino al rischio estremo. Un cuore pronto a spendersi per l’altro, il reietto, l’indesiderato, condividendo povertà e destino. Nikolaj Zernov, ne La rinascita religiosa russa del XX secolo (La Casa di Matriona, Milano 1978), ricorda l’aiuto dato agli ebrei, con sprezzo del pericolo, da parte di padre Dmitrij Klepinin, di madre Marija e del figlio Jurij. Nella Parigi ammorbata dalla presenza nazista l’opera della madre e dei suoi è inesausta, pronta sempre a dare precedenza alle vite degli altri, degli indifesi. Documenti falsi, rifugi, falsi certificati di battesimo: di tutto per salvare gli ebrei perseguitati.
Zernov cita un articolo di Raevskij sull’arresto e la fine della madre. “Madre Marija fu deportata a Ravensbrück. Alcune donne tornate da là dopo la liberazione raccontavano che la madre Marija sosteneva tutte, trovando per ognuna una parola di consolazione. Una volta, indicando il sinistro fumo che usciva dal camino del crematorio, ella disse: “Guardate, guardate come le anime salgono al cielo!”. “Madre Marija morì da martire nella camera a gas nell’aprile del 1945, prendendo il posto di una giovane madre ebrea” (N. Zernov, cit.).
La bellezza di una sua poesia mette in luce la scrittura testamentaria del suo io rivolto per sempre all’infinito: “Ho accolto la vita, Signore/ con amore e con foga ho vissuto; / e con amore ora accolgo la morte; / Ecco, il calice è colmo./ Ai tuoi piedi il calice è sparso./ E ai tuoi piedi ho effuso la vita”.
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