“Il luogo elettivo, per esigenze esistenziali, è stato Torino. Ma spesso le deviazioni di percorso mi portavano nelle Langhe, nei Roeri, in Liguria, Francia e nel Sud […] Ma io ero uno spirito inquieto di un bosco, non incantato, fatto di ciminiere, di cortei, di slogan. Periodo per certi versi folle. Gli amori legati inevitabilmente ai luoghi, che sostanzialmente ritrovavo in Pavese. […] Poi le fughe in val di Susa, Langhe, ai Roeri con pittori, allora ribelli e donne pazze. I disperati incontri sotto i portici di piazza Vittorio e ai Murazzi, sul Lungopo. Le notti trascorse al famoso caffè Elena di piazza Vittorio, dove si incontravano pittori e artisti vari e dove, non ricordo il numero civico, c’era lo studio degli scrittori Fruttero e Lucentini”.
Sono brani da una lettera di due pagine, un appassionato autoritratto biografico in prosa, che Mario Matera Frassese mi invia insieme al suo nuovo libro di poesia La matura adolescenza, pubblicato per le edizioni salentine Musicaos. Dopo quarant’anni di vita a Torino, città in cui si trasferisce in piena adolescenza negli anni Sessanta, Matera Frassese compie il proprio ritorno verso Sud, per approdare infine in un piccolo paese del Salento “cercando il dialogo con il mare e il vento sulle scogliere salentine”.
Sono tutti dati strettamente biografici, utili però a ricostruire l’identità della sua poesia, così radicata ai luoghi e sospesa tra presente e passato, sulla fragile linea di confine che separa l’età adulta della ragione dalla segreta libertà dell’adolescenza: “Adesso che ti ho parlato / in questo giardino / dalle morte foglie / e ti ho svelato parte di un passato / vorrei proprio che ti fermassi / a narrarmi / le parole di un segreto incanto. / Il vento allontana i rumori / e le voci dei bimbi / son remote ipotesi di vita” (p. 28). Anche i luoghi di Matera Frassese, tra gli argini del Po, sembrano riflettere lo stato di sospesa inquietudine che attraversa tutto il libro: gli “accidentati luoghi” (p. 25), il “fiume / addormentato / tra le luci degli imbarchi / e le sponde deserte” (p. 29), un piovoso “Settembre inoltrato” (p. 33), “immote pietre” (p. 43), il “lungopo / annerito di scritte” (p. 46), “gli angoli perduti / di questa città / così gelida” (p. 51), le “morte foglie del viale” (p. 53), la luna nascosta “dietro la nebbia piovigginosa” (p. 64).
In questo stato di sospensione e di “esilio” in cui si trova il soggetto, inquietamente in ricerca tra i frammenti del proprio io (“ho disgregato / anche me stesso / tra i mille luoghi”, p. 27), persiste però un “tu” che abita costantemente queste poesie. È una presenza altra con cui mettersi in dialogo, qualcuno di cui disperatamente si avverte l’attesa (“Ti aspetto / se mai tu arrivassi / lungo i sospiri del fiume / addormentato”, p. 29), un amore che arde ancora segretamente nonostante la durezza del presente: “Arde qui / sul mio tavolo/ una bianca candela / che accendo sempre / ogni sera” (p. 49). O talvolta un tu che compare portando con sé sulla scena il mistero di una improvvisa ed imprevista apparizione: “Ti sei fermata / a quel muro scrostato / – trecentesche pietre / racchiudenti / memorie passate – e mi sfidi: / occhi e corpo / sfavillanti legami” (p. 65).
Non importa sia stata forse solamente “una visione / che si dissolve” (p. 39), ma nella poesia di Matera Frassese è proprio questa visione a permettere al poeta di entrare con occhi e corpo nell’enigma del presente, davanti a un’alba sulle rive del Po o sui difficili sentieri della vita, in ogni “pietra / di disperazione” (p. 66).
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