“Manca poco”. È la chiusa della lettera, pur solo interiore, che Anna scrive, a trent’anni di distanza, all’indimenticato amore dei suoi quattordici anni in Degli amanti non degli eroi di Daniele Mencarelli (Mondadori, 2024); una chiusa in un certo senso misteriosa, un salto nel discorso, che costringe a tornare alle pagine precedenti per cercarne le radici e, insieme, è quasi un sussulto improvviso, istintivo, nel quale il gioco amoroso riprende, presente, si offre, e la parola poetica stessa rivela la propria consistenza. Una questione di tempo, certo, ma di un tempo che cerca ancora la propria unità di misura.



“Manca poco”, come a ogni vita manca qualcosa; una questione di natura: la carne che non sa gridare che questo dolore, “questa cosa / incistata dentro i sensi dalla nascita”. E forse questo augurio di un prossimo svelamento è l’ultima cosa che riusciamo a dire a noi stessi. Perché si possa continuare a sperare, aspettare. Perché si possa credere.



O invece un’ammissione, una sorta di evidenza cui arrendersi; come se infine, dopo trent’anni, Anna accettasse di misurarsi con ciò di cui Gabriele le parlava, quel Mistero che le aveva “insegnato a sorvegliare”; un’ammissione cresciuta lentamente, come l’impossibile somiglianza del proprio bambino con il volto stupito di lui, con il suo sorriso di trent’anni prima.

Una scoperta e un figlio, pur nato da una relazione successiva, che sembrano corrispondere al compimento cui Mencarelli rimanda nella propria Didascalia al poemetto. “E Gabriele, alla fine, a un passo dal significato, darà forma alla sua scomparsa, diventerà egli stesso interrogativo, per Anna, che rimarrà per sempre accanto alla sua assenza”.



Nel suo “manca poco” Anna riprende quell’ultimo “passo” di Gabriele, e riparte da esso. Un gioco di rimandi all’interno del quale è facile scorgere, in quel figlio che lo ricorda in modo misterioso, la forma di un inaspettato “sempre accanto”; il lettore stesso partecipe di un tempo che eccede la misura normale.

Proprio il tempo – o, meglio, poter sfuggire alla parabola consueta della vita, alla condanna della fine – era il regalo che avrebbe voluto farle.

Lui – che all’inizio della storia, prima di cedere al fascino inconsueto di quella ragazzina, prima di scoprire “quanto enorme” e generoso fosse il suo sorriso, era solo un “rabbioso testimone della grandezza dell’esistenza” – piano piano si vede venir meno alle regole imposte dalla periferia, dalla violenza, dalla noia; e stupisce per come quella sua fredda consuetudine alla conquista diventi amore.

“Tutto grazie a te si fa bellezza”.

E l’amore non può accettare di finire, non può accettare che la vita stessa finisca, che il mondo ormai salvato, reso bello, possa morire; perché il miracolo del tempo e quello della bellezza sono della stessa natura.

“(…) voglio esigo imploro / poterti salvar la vita/ farti eterna per come amore/ ti legge e ti desidera”.

E qui ognuno, leggendo i versi che “raccontano” la storia dei due giovani amanti, potrà ripercorrere i passi del loro percorso con le proprie corrispondenze, con le proprie memorie o ferite; ognuno ritrovando il proprio inizio, l’avvenimento che dà l’avvio, per ognuno, al tempo. “Ora che sto imparando a camminare”.

Per questo Gabriele combatte con il proprio personale demonio che gli sussurra che nulla vale perché nulla dura, nulla resiste al tempo. Per questo prega, implora, incalza un Tu eterno: con una confidenza che ha il sapore di una tradizione remota e, certo, di una sfida, come normalmente ci si fronteggia in periferia.

Una “missione senza fine / cacciarti per poterti amare”, nella quale i piani separati del tempo e dell’eterno improvvisamente coincidono in Anna, “lei come Tuo segno”, lei che diventa la forma stessa di questo dialogo drammatico con il Mistero.

L’intero verso del futuro / si consumerà senza fuochi dal cielo, / ai tuoi piedi mai poggerò la preda / la prova che alla fine resisteremo, / ma tolta l’impazienza che mi smania / altro atto vuole la mia fede, / dare rinascita ogni giorno / al clamore che sei per i miei occhi / poi con ogni fibra di esistenza / amare e ringraziare, questo mi basta.

Così, il momento fatale della storia, in cui il futuro sembra collassare, coincide invece con il punto nel quale il tempo germina l’eterno, si rimodella secondo una nuova unità di misura, quella del “clamore”, della sorpresa dell’essere; quella dell’attesa.

(…) ma a che servono i giorni / se non a sperare la Tua voce? / cosa me ne faccio del tempo/ strappato il seme di vigilia? / Così in attesa rimango, / le orecchie puntate all’orizzonte”.

Quel “seme di vigilia”, oggi, è di nuovo un bambino, di nuovo si rende compagnia in modo misterioso. Non più pretesa ma dono, nel quale l’attesa stessa è già la risposta; e della quale quella chiusa misteriosa, “Manca poco”, è l’espressione più affettuosa; come a un Dio, un bambino, un amante; come a qualcuno da chiamare per nome e presente.

Nella seconda sezione del libro, “degli eroi”, la situazione cambia completamente. Ci troviamo al Lux Hotel; i protagonisti, tre soldati che hanno messo fine a una tirannia, sul cui eroismo è stato rifondato l’onore di una nazione intera, e due anonimi impiegati notturni dell’albergo.

È lo stesso Mencarelli, nella sua Nota finale, a offrire come chiave di lettura del testo l’invito a opporre al “bisogno di questa forma di eroismo [maschile e guerresca]”, “l’eroismo del perdono, della compassione, del coraggio che soccorre”. E come nella prima sezione, ci troviamo davanti a una storia di sacrificio (nel senso più pieno di destino) che, se pur rimane segreto al mondo, offre misteriosamente a tutta la Storia una nuova possibilità; un dono totale di sé, qual è il perdono, che offre un nuovo inizio a ogni uomo.

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