Ritengo che il miglior romanzo italiano uscito nel 2018 sia stato quello di Daniele Mencarelli, d’accordo con Marco Lodoli che assai tempestivamente, nel marzo dello stesso anno, quand’era ancora fresco di stampa, scriveva su Repubblica: “Tra poco comincerà la stagione dei premi letterari, con tutti i suoi accordi, favori e doppi giochi, alla fine dei quali a volte capita persino che venga scelto un bel libro: ma intanto nella mia mente ho già assegnato il premio al miglior romanzo dell’anno: è La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli, scrittore che vive tra Ariccia e Roma”.



I motivi della sua efficacia narrativa stanno certamente nella storia, quella di un giovane poeta oppresso da “una malattia invisibile all’altezza del cuore, o del cervello” che si rifiuta di obbedire automaticamente ai riti cui sembra sottostare l’umanità (trovare un lavoro, farsi una famiglia) e affoga il suo male nell’alcol e nelle sostanze, finché l’impatto con la realtà tremenda dell’ospedale “Bambin Gesù” di Roma, dove viene assunto da una cooperativa di pulizie, lo fa pian piano riemergere.



Come sempre, importa poco (credo men che meno a Mencarelli) che la storia sia autobiografica; l’importante è la rappresentazione artistica di una verità umana. Artistica, appunto: e la letteratura è l’arte della parola, nient’altro. Da qui il motivo della mia predilezione per questo romanzo: la sua lingua. Dei non pochi romanzi (certo, non tutti) letti in un anno, quello di Mencarelli ne affronta il problema nel modo più serio e senza scorciatoie. E oggi le scorciatoie sono tante, perché la tecnica dello scrivere è stata analizzata in mille aspetti dalle mille scuole di scrittura, dalla baricchiana, costosissima Scuola Holden in giù (“i segreti della scrittura in tre giorni” grida una pubblicità online). Ma gli scrittori seri sanno che nessun laboratorio di scrittura creativa risolverà mai il problema della lingua.



Io credo che Mencarelli sia libero da questa illusione perché è un poeta. È stato pubblicato proprio quest’anno dall’editore Pequod di Ancona il volume Tempo circolare. Poesie 2019/1997 che, come indicano le date a ritroso del sottotitolo, ripercorre tutte le stagioni della sua poesia all’indietro, dall’ultima raccolta inedita fino agli esordi. È chiaro dunque che in Daniele Mencarelli il poeta ha aiutato il narratore, e viceversa, come vedremo. Perché i poeti sono gli unici che sanno che la parola è un mistero per tutti; direi che questa consapevolezza è il cuore del loro non riconosciuto mestiere. E che il lavoro incomincia dove finiscono tutte le teorie della letteratura e i laboratori di scrittura.

Da quel momento sono di fronte all’abisso della loro stessa lingua; il Mencarelli-scrittore accetta di stare di fronte al mistero insondato delle sue parole come il Daniele-personaggio del suo romanzo comincia a guarire guardando il mistero ancora inespresso del suo male. Tant’è vero che nel romanzo si trova incastonata l’esperienza del poeta, quando il direttore dell’ospedale accetta che il protagonista scriva un libro di poesie sul luogo di lavoro. Dal punto di vista letterario, allora, siamo in un’epoca in cui i poeti, che da noi sono ancora vitali anche se isolati dal mercato e persino tra di loro, possono salvare i narratori dalla loro banalità linguistica che diventa, come un contrappasso, sciatteria tematica.

Banalità a cui si abbassano per captatio benevolentiae di un pubblico e un mercato che fatica sempre più a leggere opere di spessore proprio perché trattato come un’accolita di scolaretti; e più la letteratura abbassa il tiro, più il gusto s’annacqua, come un gatto che si morde la coda, così che tra poco la lettura scomparirà dall’orizzonte normale della nostra vita. Il libro di Mencarelli è esemplare per controtendenza, e che gioia sapere che ha venduto molto.
Come il romanzo è sostanziato con lo spessore linguistico imparato dalla poesia, così le poesie di Mencarelli mantengono il passo della narrazione; l’ultima sezione della recente raccolta, quella inedita, è una galleria di incontri, di personaggi, quasi alla maniera di una Divina Commedia dove prevale apparentemente l’inferno.

Basta guardare il primo cammeo, la descrizione di un matto che tenta di incendiare i capelli agli altri; si prosegue con schiere, tra gli altri, di sbandati, madri impreviste (“Ora con tua figlia tra le braccia/ di quella desolazione a mucchi/ perdizione vestita da gioventù/ non c’è traccia neanche a cercarla,/ ora sei tutta in quella principessa/ che ti stringe e ti reclama,/ come ogni madre, regina”), prostitute convinte, insegnanti depressi: “Il premio per trent’anni di mestiere/ trent’anni di classi elementari/ ad ammaestrare bestiole di paese/ è un posto sui pullman regionali/ dove per la gioia dei viaggianti/ continui con il bell’insegnamento/ alla classe fantasma che ti appare,/ nella tua testa scoppiano gli alunni/ fino a farti bestemmiare senza pace/ tanto violenta è l’indisciplina/ ignorata la lezione d’italiano,/ cognome per cognome/ chiami all’ordine i bambini/ i paganti per concorso alla pazzia,/ Mencarelli ti fa schiumare più di tutti”.

Anche quelli “giusti”, delle classi alla moda radical chic, non fanno una figura migliore: “parlano con esibita padronanza/ che sia d’arte precristiana/ o la fame nell’Africa centrale,/ vent’anni passati a malapena/ e già padri nobili del mondo,/ non c’è cancrena umana/ la piaga sociale più profonda/ che non saprebbero sanare,/ le idee son sempre quelle/ come i maestri di pensiero”.

Si può già sentire da queste citazioni il passo che continua a raccontare, pur in poesia, un po’ alla maniera di Pavese, anche se con ritmo più incalzante. Una poesia che racconta, una prosa che canta: viene in mente Raymond Carver, un grande specialista americano di questa capacità di combattere su due fronti al quale, non per caso, è dedicata una poesia. E in definitiva come nel romanzo (ma anche in Lavorare stanca di Pavese) ciò che ci viene narrato è una storia di formazione, moltiplicata per cento nelle poesie, che sono tante storie di vocazioni apparentemente interrotte, di promesse quasi sempre ancora da mantenere. Anche qui il male è la mancanza non solo del compimento (“ripeness is all”, il compimento è tutto, diceva Pavese citando Shakespeare) ma anche l’impossibilità, così drammatica da giungere ogni volta sul bordo dell’abisso, di scorgere la strada. Non a caso la vicenda del romanzo ha una svolta dall’episodio in cui la madre del protagonista decide di farla finita assieme al figlio. Occorre diventare se stessi, dice Mencarelli, attraversando il male di tutti, che rimane tale finché non trova le parole giuste, cioè quelle della poesia, per uscire dal tunnel.