Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l’Italia è l’ultimo lavoro di Roger Abravanel, per i tipi della casa editrice Solferino. Il libro, a prima vista, potrebbe sembrare un saggio di economia e management, anche per la biografia dell’autore, direttore emerito di McKinsey e consigliere di numerose aziende, ma in realtà il suo pensiero travalica quell’ambito e lo fa con competenza e passione, percorrendo trasversalmente vari saperi, tra cui quello storico, sociologico e antropologico. Più che un libro, quello di Abravanel è uno specchio dove noi italiani possiamo raffigurarci. E il bilancio non è positivo, tanti sono gli aspetti (drammaticamente!) insoddisfacenti della nostra vita civile. L’autore non fa sconti e la situazione, a prima vista, pare irredimibile, anche se poi l’orizzonte sembra schiudersi su una nuova generazione di giovani, una “aristocrazia 2.0”, che si è formata presso buone università.



Fin dalle prime pagine, il testo scorre con un linguaggio semplice e coinvolgente, mostrando il film delle recenti vicende del nostro Paese, cioè la nostra storia contemporanea. Esso ci racconta di un’economia ingessata e incapace di crescere, ormai dal ’92, l’anno drammatico di svalutazione della lira. È un’economia radicata su un sistema industriale di piccole e medie imprese che, proprio per la taglia ridotta, sono state incapaci di promuovere ricerca e sviluppo e di valorizzare il capitale umano disponibile (pochi i laureati assunti…). Un sistema inadatto, oggi, ad affrontare la crisi causata dalla pandemia. Il nanismo, inoltre, non riguarda solo le aziende, ma anche gli studi professionali e i servizi, penalizzando le singole persone i cui stipendi, in Italia, sono più bassi, e l’intero sistema della professioni. Tutto ciò, nonostante si ripeta continuamente “la bufala” che i lavoratori autonomi sono la forza del Paese.



La bassa crescita e il debito pubblico insostenibile, inoltre, rappresentano una combinazione che già conosciamo. È lo scenario dell’Argentina: una spirale di declino economico e inaffidabilità finanziaria, con l’aggiunta di una regressione sociale, causata dall’aumento delle disuguaglianze, e culturale, conseguente al numero sempre più ridotto di laureati e alla perdita di prestigio delle università. Il tracollo e i default, susseguitisi in quel paese, un tempo ricco, forse possono essere evitati, perché in Italia c’è ancora un tessuto di imprese innovative e competitive che lascia ben sperare, ma la formazione del capitale umano continua a vivere una condizione di impasse. La cultura meritocratica non decolla e il nostro Paese ancora non è entrato a pieno titolo nel mondo dell’economia della conoscenza.



Diversamente da ciò che accade nelle nazioni più evolute, in Italia la valutazione delle istituzioni educative, scuole e università, da parte dei soggetti deputati a tale compito, Invalsi e Anvur, è avviata solo parzialmente e talora subisce battute di arresto. Le forze che ne ostacolano lo sviluppo sono molteplici e comprendono i sindacati, alcuni partiti politici e gli stessi docenti, talora per motivi ideali, spesso per convenienza. “Merito”, da noi, significa conseguire il “pezzo di carta”, anziché puntare su una formazione di alta qualità, fatta di scuole e università di eccellenza e di esperienze extracurricolari speciali e arricchenti. Anche per questo, il numero dei laureati è basso (20% circa, contro il 44% della media dei paesi Ocse).

In Italia si è convinti che la valutazione stessa sia una fregatura, dove i vincitori, i soliti predestinati, si mimetizzano sotto una coltre di giudizi apparentemente oggettivi, secondo quanto spiega il filosofo americano Sandel.

Abravanel punta il suo sguardo analitico sulla fiducia, che è un elemento centrale nelle relazioni umane. Gli Italiani, infatti, non si fidano gli uni degli altri e vedono il successo altrui come conseguenza di furberie e sotterfugi. L’opinione comune suggerisce che la competizione leale non esista. Di conseguenza spira un vento antimeritocratico che costituisce, negativamente, un tratto essenziale del nostro modo di pensare. Un disvalore. Purtroppo le ricerche sociologiche di Banfield, nella metà degli anni Cinquanta, o quelle di Putnam, negli anni Settanta e Ottanta, documentano come una parte consistente della popolazione italiana sia mossa soprattutto dalla ricerca del vantaggio particolaristico, secondo i criteri del “familismo amorale”. Ma la fiducia tra persone, caratterizzata dal rispetto delle regole e dai comportamenti improntati al criterio della reciprocità, è il principale ingrediente del vivere civile. Essa genera, infatti, il capitale sociale, che mantiene coesa la società.

Il saggio, poi, contiene, nella parte centrale, una disamina dello sviluppo economico di alcune nazioni nella attuale fase di globalizzazione. Abravanel conosce, per esperienza diretta, varie realtà internazionali e le descrive in maniera vivida, individuandone in modo nitido i trend emergenti. Poi si sofferma sulle vicende italiane. I casi nostrani di miopia strategica sono numerosi. Generalmente si è preferito passare l’azienda ai figli, i quali non sempre sono stati all’altezza dei genitori. Al fallimento delle imprese è seguita la cessione della proprietà, spesso in mani straniere.

Rimediare a questa situazione non è facile, proprio perché essa non deriva da fatti contingenti, ma si pone in un contesto strutturale antimeritocratico, di rifiuto della competizione e di condanna pregiudiziale dell’ambizione ad eccellere. Abravanel pone comunque tre obiettivi. Il primo: creare uno Stato magnete, attrattore di capitali smart, ad alto contenuto di conoscenza; il secondo: riformare le università, che si sono chiamate fuori dalla competizione intellettuale internazionale; il terzo: costruire forme di check and balances che circoscrivano il potere giuridico nell’alveo che dovrebbe essergli proprio. Quest’ultimo obiettivo potrebbe apparire di natura politica e, certamente in senso lato lo è, ma Abravanel, ancora una volta, punta lo sguardo verso le dimensioni di fondo della società civile, che non può reggersi senza una giustizia funzionante.

Il libro pare ispirato da una sorta di patriottismo culturale, ancora più forte, date le difficoltà del Paese. Se da un lato c’è la forte denuncia del familismo, dall’altro mostra, con un sentimento di speranza, l’affermazione di quella nuova élite di giovani che fa della formazione il carattere distintivo. Il riscatto del nostro Paese guarda ad essa.

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