È probabilmente il più grande alpinista vivente, forse il più grande di tutti i tempi, e non solo per essere stato il primo a salire su tutti i 14 Ottomila tra gli anni 70 e 80, e sempre senza le bombole di ossigeno. “Vivente” è in questo caso un participio molto importante, perché secondo statistiche un po’ a spanne ma assolutamente verosimili, in ogni epoca almeno due terzi degli alpinisti di punta non sopravvive alle scalate, e muore in parete. Reinhold Messner è sopravvissuto – che è anche il titolo di uno dei suoi innumerevoli libri, molte decine, quasi tutti di successo – e ora pubblica la sua autobiografia “definitiva” a 80 anni (è nato in val di Funes, sopra Bressanone, il 17 settembre 1944): La mia vita controvento edita da Corbaccio.



Il titolo originale tedesco (Messner scrive tutti i suoi libri in tedesco, poi vengono tradotti) è più preciso, suona come “Crescere e resistere controvento”. Già, perché il libro, da questo punto di vista assai deludente per chi si aspettava una “vera” ricca e completa autobiografia, è più che altro una minuziosa raccolta delle enormi polemiche mediatiche con strascichi giudiziari, in genere attraverso la riproduzione di testi via via apparsi sulla stampa, suscitate dalle imprese di Messner e delle sue molteplici attività anche non alpinistiche. La maggior parte riguarda ancora la tragica morte del fratello Günther sul Nanga Parbat dopo la conquista nel 1970 della parete Rupal – 4500 metri, la più alta del mondo – di cui Reinhold fu né più né meno accusato di fratricidio per 35 anni, fino al ritrovamento di alcuni miseri resti del fratello che ovviamente gli diedero pienamente ragione. Ma non solo: lo yeti himalayano, di cui Messner rivelò la banale natura di orso bruno e a lungo fu accusato di menzogne per aver demistificato una leggenda; la sua breve esperienza di europarlamentare per i Verdi; le lotte contro una burocrazia ottusa per creare i suoi musei altoatesini o per diffondere l’ottimo vino di queste montagne. O l’ultima dolorosa separazione dalla moglie che lo cacciò di casa dopo che aveva donato alla famiglia il suo patrimonio. E tanto altro, quasi come la memoria riepilogativa di un avvocato per l’udienza in tribunale.



Il libro è comunque da leggere, per alcune pagine memorabili, come quelle (però non scritte da Reinhold) in cui l’anziana e comprensiva madre Maria Troi-Messner descrive i caratteri dei suoi 9 figli da piccoli – con la povera Waltraud stritolata tra 8 maschi tra cui Reinhold – o quelle ahimè rare di ricordi dell’iniziale stagione alpinistica dolomitica del Nostro, in cui prima di avere le dita dei piedi congelate sul Nanga Parbat e amputate, fu il primo a superare, col senno classificatorio di poi, l’VIII grado sul muro del Sasso della Croce in Val Badia, quando la scala ufficiale delle difficoltà alpinistiche era ancora ferma al mitico “sesto grado”. Il grande austriaco Heinz Mariacher anni dopo riuscì a ripetere la via, ma con una variante nei metri più difficili, e Messner rivela che il minuscolo pezzetto di roccia, su cui lui si appoggiò, nel tempo era poi crollato e quindi la via originale non era comunque più percorribile. C’è poi chi sostiene che il primo vero VIII grado lo fece Raffaele Carlesso sulla parete sud della Torre Trieste (in Civetta) senza chiodi e a piedi scalzi addirittura già nel 1934. Ma questa è un’altra storia…



“Il mio alpinismo è più arte che sport – scrive Messner –, sono diventato senza volerlo una leggenda dell’alpinismo anche grazie ai miei avversari. Mi fido completamente della natura e dei suoi insegnamenti, ma spesso non ci si può fidare delle persone e delle loro intenzioni. Il vero traguardo ora è la mia minuscola baita in legno di fronte alle Odle e raggiungere la pace con me stesso e con tutti”. Alla fine, “è sempre l’entusiasmo a permettere di realizzare i sogni”. Lunga vita, Reinhold.

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