Gli studi inaugurati all’inizio degli anni ottanta da George Lakoff e Mark Johnson hanno contribuito a interpretare le metafore come un fatto del pensiero e non del linguaggio, come un modo per strutturare i concetti che permette di comprendere astrazioni come “amore” o “amicizia”. Metafora non è dunque un’anomalia semantica ma lo strumento per connettere il sistema concettuale astratto con la nostra esperienza e costruire così una possibile conoscenza.
Lakoff e Johnson danno questo esempio: nella nostra comunicazione quotidiana parliamo delle discussioni in termini conflittuali, così diciamo: “le tue richieste sono indifendibili”; “ha attaccato ogni punto debole nella mia argomentazione”; “le sue critiche hanno colpito nel segno”; “ho demolito i suoi argomenti”; “ha distrutto tutti i miei argomenti”. Ciò che occorre sottolineare in questi esempi è che rappresentare l’argomentazione in forma di guerra non è una questione di sole parole, ma comporta una serie di conseguenze per cui vinciamo o perdiamo nelle discussioni e le viviamo in termini di combattimento. “La discussione è un conflitto” è una metafora che struttura il nostro comportamento e influenza il modo di discutere.
“La discussione è un conflitto” è una metafora strutturale; dello stesso tipo sono metafore come “il tempo è denaro” o le tre metafore che definiscono il nostro modo di parlare del linguaggio: “le idee (o i significati) sono oggetti”; “le espressioni linguistiche sono contenitori”; “la comunicazione è l’atto di spedire qualcosa”. Oltre alle metafore strutturali abbiamo diversi tipi di metafore. Le metafore di orientamento sono alcune di queste: esse strutturano interi sistemi di concetti e riguardano l’orientamento spaziale, sono basate sull’esperienza corporea come ad esempio “star su” o “stare giù”. Esiste inoltre un terzo tipo di metafore: le metafore ontologiche, l’esperienza degli oggetti fisici e delle sostanze. Le metafore di questo tipo sono moltissime, ad esempio ne fanno parte le espressioni riconducibili alla metafora ontologica “la mente è un’entità” come “la mia testa oggi non funziona”, “oggi sono un po’ arrugginito”; le espressioni che si riferiscono alla mente come un oggetto fragile, ad esempio “sto andando a pezzi”.
Non è la stessa cosa se usiamo una metafora o l’altra. Cambia il nostro modo di entrare in relazione con la realtà. Se una discussione è un conflitto lo scopo è vincere, se è una danza dobbiamo farla assieme. Le metafore sono in altri termini le strutture portanti delle narrazioni attraverso le quali un messaggio entra nel nostro modo di rappresentare il mondo (frame) e ce lo rende naturale attivando meccanismi automatici. Le parole non sono solo parole in questo caso perché se “parlo così” allora “penso così” e “mi comporto così”.
Fin dal suo apparire il linguaggio della pandemia è stato un linguaggio bellico in cui il termine “guerra” e i termini ad esso connessi sono stati quelli a più alto tasso di frequenza. Che cos’è infatti il Covid-19? È un nemico invisibile. Per combatterlo siamo in trincea ma il rischio è di “non uscire mai dalla trincea delle nostre case”, dobbiamo “sferrargli un attacco frontale”, abbiamo soldati ed eroi che si scontrano con esso; “bisogna combatterlo con un’arma antica”, è necessario avere strategie e mettere in campo una task force; ma il nemico bisogna conoscerlo da vicino perché “se non sei al fronte la guerra ti appare diversa” (Beppe Severgnini sul Corriere della Sera). Dobbiamo resistere perché “la vittoria è vicina” (Sergio Mattarella).
Queste metafore definiscono un contesto cognitivo preciso. Cè una guerra in corso e combattiamo contro un nemico. Il virus viene reso persona nella figura del nemico anche se invisibile, non è un evento catastrofico che giunge non sappiamo bene da dove. Di fronte al nemico, in guerra non ci si può dividere, deve prevalere l’interesse generale rispetto ai particolarismi. Per questo la guerra prevede uno stato eccezionale, uno “stato di guerra” appunto.
All’articolo 11 della Costituzione l’Italia, come è noto, ripudia la guerra come risoluzione delle controversie internazionali, tuttavia il nostro immaginario è pieno di guerre così come ci appaiono in film, serie tv ecc. e quindi sappiamo in cosa potrebbe consistere uno stato di guerra. Ad esempio sappiamo che le regole possono essere sospese, che la normalità viene inevitabilmente stravolta. Questo rende più disponibili ad accettare provvedimenti che limitino certe libertà e che qualcuno ce ne “consenta” solo alcune. Tempi eccezionali che vogliono misure eccezionali inedite: del resto, le norme antiterrorismo entrate in vigore dopo il 2001 non avevano messo in quarantena alcuni diritti che più che acquisiti si davano per scontati, come la libertà di movimento.
C’è stato solo uno che al virus come conflitto non ha creduto, Fausto Bertinotti: “La guerra è un conflitto tra Stati, tra paesi che trascinano i popoli gli uni contro gli altri. C’è un nemico fisico. In questo caso l’avversario è esogeno, non lo si può combattere con le armi di distruzione della guerra. Contro il virus le armi sono cura e prevenzione, il contrario della guerra”. (Huffington Post, 22 marzo 2010)