Nelle società del passato, il rimedio più efficace per frenare i contagi epidemici è rimasto per secoli la reclusione forzata. Il blocco della quarantena condannava a un isolamento che paralizzava i ritmi dell’interscambio extradomestico, riducendoli tendenzialmente a zero. Si creava uno spazio vuoto di attesa, che minacciava di dilapidare le risorse residue e di travolgere anche le ultime resistenze degli individui, sottoponendo a dura prova la tenuta delle regole che ne inquadravano la vita ordinaria. Per vigilare su questo rischio, le autorità religiose erano esposte in prima fila al compito di fare da sentinelle nella traversata del deserto, verso il ritorno a una condizione di almeno relativa sicurezza.
La scena di sempre si ripeté anche a Milano in occasione della peste del 1576. A fare da defensor della città, nella situazione di crisi generale che allora esplose drammaticamente, c’era un arcivescovo della tempra di Carlo Borromeo, leader di primo piano del rinnovamento cattolico al tempo del concilio di Trento.
Stando alla sua visione, anche il ritiro prolungato nelle case doveva essere sfruttato come provocazione eccezionale per l’educazione dell’io cristiano. A questo scopo servì la diffusione dei “buoni libri” che le stamperie cittadine sfornarono in gran quantità per la messa in opera di una rete capillare di catechesi, abbordabile dall’interno dei recinti delle singole comunità familiari, sotto la responsabilità dei laici capaci di accedere alla lettura autonoma dei testi. Uno di tali sussidi fu il volumetto che vide la luce nel corso del 1577 con il titolo di Raccolta di vari ragionamenti di alcuni santi sopra la cura e aiuto de i poveri e infermi e la fortezza nel morire: in pratica, una sostanziosa miscellanea di scritti edificanti offerti all’insieme del popolo di fedeli “della città e diocesi di Milano”, che si rivelano di una ricchezza sorprendente, tradotta nel linguaggio più facilmente accessibile anche di fuori dell’élite clericale.
Dopo una lettera introduttiva ricavata da un breve messaggio del papa regnante, Gregorio XIII, incontriamo una “epistola di san Dionigi vescovo di Alessandria di Egitto”; quindi “quel gran sermone di santo Cipriano martire, intitolato della mortalità, del quale ben spesso sant’Agostino se ne serve e Eusebio Cesariense l’allega”, in cui il grande vescovo di Cartagine del III secolo “maravigliosamente infiamma i cuori a non temer la peste, anzi a consolarsi come di cosa mandata da Dio per gran beneficio nostro”. Il terzo “ragionamento” è la Orazione di Gregorio Nazanzeno teologo. Dell’amor verso i poveri e infermi, “piena di affetti e ammaestramenti cristiani, degna veramente della sua pietà e dottrina, quale egli scrive per cagione di quei poveri e infetti di contagione di lepra, quali si nodrivano nell’ospedale di san Basilio, dove egli stesso anco, essendo vescovo, con le proprie mani li curava e serviva, ai quali sono assai simili questi nostri, infetti di peste”.
Vengono poi “due altre gravi omilie pur della cura de i poveri e infetti di questo male, che sono di san Gregorio Nisseno, fratello di esso san Basilio”. “E a queste due ‒ chiarisce la premessa dell’arcivescovo patrocinatore della stampa della Raccolta ‒ abbiamo anco aggionto il sermone, che pur scrive il medesimo san Cipriano della limosina”. Con il penultimo degli scritti riuniti in serie si passa a una “lettera di santo Agostino, scritta a Onorato vescovo”, cui fa da sigillo conclusivo una appendice agiografica moderna, dedicata alla figura del quasi contemporaneo Bernardino da Siena, anch’egli distintosi nel servizio generoso agli appestati.
La forza suggestiva dei messaggi che si potevano ricavare dalla Raccolta di vari ragionamenti discende in primo luogo dal marchio di assoluta autorevolezza che li distingue. Sono testi prelevati dal tesoro dei grandi maestri dell’impianto del cristianesimo nei primi secoli della sua storia, e in essi trovano posto alcune fra le più classiche esortazioni alla cura della carità nei confronti dei poveri, degli infermi e dei moribondi a disposizione dei circuiti tipografici agli inizi dell’età moderna, in tutto lo spazio europeo. Dalla parola sapiente e piena di fervore dei padri fondatori delle origini cristiane si pensava occorresse ripartire per investire con una consapevolezza più solida e matura le sfide dolorose di un presente insidioso e ostile. Per camminare in avanti, non si poteva fare a meno di attingere dalle sorgenti più vitalmente feconde. E per farlo in modo intelligente, non aveva senso chiudersi nella semplice gestione managerialmente avveduta delle calamità pubbliche. Era necessario inserire l’opera della subventio pauperum nell’unica cornice di significati capace di restituire alla sollecitudine per il bene comune le sue prospettive più autentiche e veramente remunerative.
La spinta alla solidarietà universale che affratella la famiglia degli esseri umani, scaturendo dalla loro stessa natura di creature volute e amate dall’unico Dio provvidente che muove i fili del divenire incessante del cosmo, sta alla base dell’altruismo cristiano. Ma il senso del legame che stringe in una catena di relazioni amorose è stato portato alla sua massima evidenza solo nella scia dell’intervento divino all’interno della storia del mondo. Dio, che è nella sua essenza carità, ha amato fino in fondo le sue creature: si è svuotato dalle sue stesse viscere per riversarsi nel dono del Figlio che si è fatto compagno alla fragile esistenza dell’uomo e lo ha riscattato dal buio di ogni ribellione colpevole e di ogni distanza. La misericordia è il volto della rivelazione che attrae a sé l’uomo di fede: lo interpella, lo attira nell’abbraccio di una gratuità che è totalmente materna, aperta, ospitale, e a partire da qui invita l’uomo a fondersi con la stessa realtà amorosa del Dio che si fa incontrare nel segno fisico del corpo di Cristo. L’immedesimazione introduce nel suo medesimo orizzonte di vita. Si diventa una cosa sola con una pietà che, calando dall’alto, si lascia condividere da tutti.
In questa ottica, come la dottrina della Chiesa da sempre non si stancava di insegnare, i più piccoli e indifesi, i poveri malati travolti dall’avanzata di patologie inspiegabili, assumono il valore di tramite con cui il modello della carità suprema di Cristo fa sentire nel modo più eloquente il suo richiamo a ogni angolo di strada, nei luoghi dove si ammassano gli infelici contagiosi, prima che la loro esistenza giunga al capolinea. Il bene fatto a loro non è filantropia. L’amore vero riconosce nei sofferenti il profilo stesso di Cristo che si è sacrificato per la salvezza del mondo. E il soccorso loro prestato (Matteo 25) si riscatta nella potenza del gesto che riconcilia l’effimero istante con l’assoluto di Dio che attende l’uomo al varco, concluso il suo cammino.
La carità rigenera il mondo. Ma lo fa esaltando il valore dell’io che si spende per il bene dell’altro da sé. È dal povero stesso che fuoriesce, rifluendo su di sé come cascata di grazia, il dono della carità più grande. Diventando oggetto della carità altrui, egli innalza innanzitutto chi dona alla pienezza del destino. Gli spalanca la strada per essere ammesso al privilegio dell’amicizia indistruttibile con la fonte della più sovrabbondante, non illusoria ricchezza: quella che solo si può meritare di accogliere.