Non posso mai dimenticare il convinto e meditato giudizio, pronunciato quindici anni fa, da un grande finanziere in un ristorante di Milano: “Il più grande  filosofo moderno si chiama Enzo Jannacci. Per favore non scherziamo!”.

La frase di quel gran signore mi è ritornata in mente nel momento in cui ho preso in mano e poi letto, con sempre maggiore attenzione, e se posso dire, con un pizzico di commozione, l’ultimo libro di Paolo Vites, Enzo Jannacci, canzoni che feriscono (Caissa Italia Editore, 2019).



Sono nove capitoli che scorrono velocemente e mi convincono che quello (non gliel’ho mai detto) che ho soprannominato affettuosamente “orso grizzly”, ritornato da anni con un altro Mayflower dalle Montagne rocciose, oltre ad avere una grande cultura musicale, ha anche un cuore e non è solo un “irsuto” conoscitore del rock e dei suoi grandi interpreti mondiali.



Vites non fa solamente una carrellata delle canzoni di Jannacci, soffermandosi su quelle per lui più importanti, ma spiega proprio la filosofia di quell’uomo incredibile che, a un certo punto, sconvolse letteralmente non solo il panorama conformistico della musica italiana, ma anche della stessa cultura: si poteva descrivere la realtà, magari in modo migliore, cantando piuttosto che scrivendo saggi, libri e articoli di giornale.

Il sottoscritto non ha cultura musicale e brancola solo tra il piacere di alcuni pezzi di musica e di colonne sonore di alcuni film. Il sottoscritto non è mai riuscito ad ascoltare per intero un Festival di Sanremo, perché da bambino fu portato da suo padre al pronto soccorso dopo aver visto e sentito in televisione una intemerata di Nilla Pizzi. Non è mai stato snobismo, probabilmente una nevrosi.



Fu l’amicizia con Jannacci, al Bar Gattullo di Porta Lodovica, a guarirmi in parte e poi fu l’ascolto di quelle canzoni straripanti e mai banali, anche quando faceva ridere, anzi spesso e soprattutto quando usava nelle sue canzoni un’ironia che la cultura italiana conosce a stento e in certi casi non ha mai conosciuto.

Nel suo libro, Paolo Vites riesce innanzitutto a cogliere la capacità di Jannacci di farsi comprendere da tutti (anche di qualsiasi epoca) in modo talvolta comico-ironico-grottesco, altre volte in modo struggente e triste, altre volte ancora in modo quasi surreale. Mi ha stupito ad esempio, per lucidità di analisi, il secondo capitolo del libro, intitolato “Il cane con i capelli” che è una canzone che procurò a Jannacci la bocciatura di una Rai paludata in quell’epoca come oggi, anche se Enzo alla fine si dichiarava d’accordo con quella bocciatura, in un’altra considerazione forse mega-ironica, a mio avviso.

Il cane con i capelli”, che è quasi il sinonimo dell’attuale “originale” o addirittura “diverso”, è piaciuto alla mia ultima figlia, nata nel 2001, come una poesia meravigliosa. Ma tante altre canzoni di Jannacci, quelle come “L’Armando”, “Il palo dell’Ortica”, “Quelli che…”, avevano quasi esaltato mia mamma e le mie zie, che  erano nate negli anni dieci e venti del Novecento.

In realtà la musica di Jannacci spiazzava tutti i “benpensanti” della  melodia italiana, faceva irrompere con il suo “milanese” la stessa Italia nel solco della modernità musicale, della grande musica che arrivava dal mondo anglosassone e veniva modellata con canoni italiani di prim’ordine.

Non era un caso, come spiega Paolo Vites, che il “maestro” avesse suonato e conosciuto i più grandi jazzisti del mondo. Ma nel libro di Vites c’è ancora la spiegazione dell’originalità di un musicista, di un grande artista (che io ripeto era anche un grande filosofo) che guardava e cantava i drammi sociali, schierandosi con gli ultimi ma senza la “rabbia” dello scontro ideologico.

Jannacci era certamente un uomo di sinistra, ma anche un osservatore del mondo e di se stesso che alla fine era sempre “in ricerca” e che negli ultimi anni ripeteva la necessità delle “sberle” e della “carezza” del Nazareno. E forse è giusto non dimenticare, come scrive Vites nel suo libro, che Enzo era anche un bravo medico, che, secondo alcuni, si affezionava troppo ai suoi pazienti. È la comica accusa del tecnicismo attuale e dilagante.

Devo dire che il amico “grizzly”, con questo libro, mi ha indotto a risentire, più volte nella stessa sera, quella tragedia accettata di “Sei minuti all’alba” che ti sconvolge per dignità, fierezza e anche un pizzico di ironia e “Veronica”, che è il simbolo di una Milano che esiste ancora, nonostante su questo punto Palo Vites appaia piuttosto dubbioso.