“Mio padre se lo è portato via un cancro. Un cancro ai polmoni. Mio padre non fumava, ma ha lavorato per trent’anni in un’industria chimica, a Manfredonia, profondo Sud. Lo sapete come erano (e sono), le poche sopravvissute industrie al Sud? Su quale scambio sono state costruite? Su quale patto? Ve lo dico io: vi mettiamo una bella fabbrica con cui voi campate e mandate i figli all’università (che poi si trasferiscono al Nord) e vi comprate le vostre belle auto e i vostri luccicanti telefonini e vi facciamo sentire pure importanti perché scoprite che non siete solo pecorai e pescatori ma addirittura operai e ingegneri, scoprite (abracadabra) la dignità del lavoro, qualcosa sottratto alla sfera del sopruso e restituito alla civiltà del diritto. In cambio voi, però, ci date la vostra terra e i vostri polmoni e noi ci ficchiamo dentro tutta la merda che possiamo, di nascosto, ma tanta così tanta merda che morirete, morirete prima voi e poi – con calma – i vostri figli e magari i figli dei vostri figli”. Non è la prima volta che Luca Miele, giornalista in carico presso la redazione esteri del quotidiano Avvenire, affronta il tema del padre. Lo ha già fatto nei suoi libri dedicati a Bruce Springsteen, in modo particolare nel recente “Il vangelo secondo Bruce Springsteen” (Claudiana), suo eroe musicale, che ha sofferto anche lui per tutta la vita di un non facile rapporto con il genitore. Ma adesso Miele lo fa in prima persona, raccontandosi nell’autobiografico “Mio padre odiava il rock’n’roll” (Arcana, 112 pagine, 13 euro): “Bruce è un uomo in guerra con se stesso. Bruce ha urlato contro il suo Paese, ha urlato contro suo padre, contro i padri, perché è un uomo in guerra con se stesso. E io sono come lui”.



Nonostante il titolo possa far pensare all’abusato cliché del figlio ribelle che usa la musica rock per reagire al padre autoritario (musica rock ce ne è comunque tanta in queste pagine), siamo davanti a qualcosa di più psicoanalitico, che accomuna Miele a  tanti di noi, quella generazione perfettamente descritta dall’autore: “Faceva parte, mio padre, di una generazione che si è trovata a cavallo tra due modelli: quello incarnato dai loro padri, padri inavvicinabili, autoritari al limite (e a volte anche oltre) della crudeltà, incarnazioni dell’autorità, la cui parola era legge e legge assoluta. E i padri che avrebbero voluto essere, teneri, amorosi, materni, i padri che siamo diventati, noi, i loro figli, i “padri-mammi””.



Il tema dell’evaporazione della figura del padre è tema quanto mai attuale, lo ha portato benissimo all’attenzione di tutti Massimo Recalcati nei suoi studi: “Evaporazione del padre è una espressione che Lacan usava per spiegare come le contestazioni giovanili del ’68 avessero demolito l’autorità simbolica del padre nella vita della famiglia e in quella della società. La sua previsione era che il vuoto lasciato dal padre venisse colmato dal carattere feticistico delle merci, dall’oggetto di consumo. Era una previsione corretta”. E allora, una generazione di figli orfani ha messo al mondo figli senza sapere cosa significa essere padri. Dice ancora Recalcati: “Quello che resta del padre nel tempo della sua evaporazione non è il padre-padrone e nemmeno il padre-perverso, ma il padre- testimone. I figli hanno bisogno di testimoni che dicano loro non qual è il senso dell’esistenza, bensì che mostrino attraverso la loro vita che l’esistenza può avere un senso. Un esempio è Papa Francesco: a differenza dei suoi predecessori non rappresenta il padre glorioso simbolo di Dio in terra o l’infallibilità della dottrina, ma è un padre che non teme la sua povertà”.



Miele attraverso la sua storia di ragazzo meridionale fatta di povertà, semplicità, ricerca di un posto nella società, la storia di tanti italiani degli ultimi 50 anni, scava in quel grande trauma che, come direbbe Pasolini, ha portato la nostra generazione a essere la prima generazione “senza padri”, il che, significa essere senza Dio, perché Dio è padre. Morto Dio, ucciso il padre, ecco la schizofrenia che ha creato un mondo di sbandati senza punti di riferimento: “Quando vuoi guadagnare l’amore di chi non ti sa amare, finisci per diventare come lui. Finisci per imitarne i passi. Senza accorgertene, lasci che la sua ferita diventi la tua. Scavi dentro di te un buco profondo e lì, in quella caverna buia e inanimata, soffiata da venti gelidi, tra spifferi infernali, lasci cha si istalli il disamore di chi non è riuscito ad amarti. Copi il suo disamore, lo scambi per amore e il gioco è fatto: lo hai assolto. Finisci per guardarti con gli occhi della bestia che si è acquattata dentro di te. Non sai più dove inizia lei e finisci tu. In quella matassa ci resti avviluppato, imprigionato come la mosca nella ragnatela. La bestia dice che non meriti di essere amato e tu fai di tutto per distruggere quel che resta di te. E per darle ragione”, scrive Miele. Ma a questa nostra generazione è stata offerta una chance: Siamo davanti alla tv. Non ricordo che concerto fosse. Qualcosa da Wembley, Londra. Ricordo benissimo, però, che c’era Lou Reed. Avevo appena comprato l’album NEW YORK. Non so se avete presente, era quello con la copertina in cui torreggiavano tanti Lou Reed in giacca di pelle, di lato, di sbieco, di spalle, frontali. Per me era un tempo magico, il TEMPO MAGICO. Stavo abbandonando la scorza del bambino e provavo a sistemarmi dentro un corpo nuovo. Il potere della musica mi travolse, la sua sirena mi ammaliò: agli occhi del ragazzino incerto che ero, dello schizzetto appena accennato che mi conteneva, i cantanti erano divinità, traghettatori del mistero, portatori di verità capaci di scagliarti nell’empireo della vita piena. Quella che il ragazzino sta iniziando a sognare: una vita avventurosa, fatale, travolgente, sensuale, spaziale. Ecco, mi piazzo davanti al televisore. Attendo. Finalmente compare Lou. Per me è il Verbo, è Dio, è Buddha, è il Sacro Graal, è Maometto, è Diego Armando Maradona che tira una punizione, è un’apparizione che cambierà per sempre la mia vita, lo so, lo sento, lo assaporano il mio cuore e la mia giovane ansia”. La musica rock ci ha salvato la vita.

Luca Miele, con un linguaggio colorito, accattivante, a tratti umoristico a tratti pieno di dolore, ci racconta la sua vita, il suo crescere, momento in cui capisce che neanche la musica rock è abbastanza: “Elvis Morto. Jimi Hendrix morto. Jim Morrison morto. Janis Joplis morta. Lou Reed morto. Joe Strummer morto. Johnny Cash morto. David Bowie morto. Kurt Cobain, persino lui, morto. Il rock? Di- ciamoci la verità, è un cimitero. O un ospizio. Roba da sopravvissuti. Roba da terza guerra mondiale. Springsteen, 70 anni. Patti Smith, oltre 70. Dylan, quasi 80. I Rolling Stones? Allegri vecchietti. Si, è vero, Mick Jagger sculetta ancora, ma quanto è rock adagiarsi su quello che funziona sempre e che, alla fine, anziché turbare, finisce per rassicurare? Anziché scuotere, in realtà, protegge?”. Siamo ridotti a una celebrazione nostalgica, non più qualcosa di vivo e pulsante: “Celebriamo. Ricordiamo. Celebriamo. Ricordiamo. Ma cosa esattamente? La nostra gioventù? E, soprattutto, celebriamo una cosa viva o morta? Qualcosa che come un serpente si libererà della vecchia pelle e tornerà a strisciare, a sedurre, a tentare? O siamo, tutti, dentro un museo e da quel museo il rock non uscirà più sulle sue gambe ma sopra una carrozzella? “.

Fino alla morte del padre e il diventare padre lui stesso. E adesso? La lotta con il padre non è mai finita: “Negli ultimi anni della sua vita, mio padre aveva iniziato a soffrire di depressione. Era un qualcosa di ciclico, che planava su di lui con ostinata regolarità: la carogna arrivava, squassava l’animo di Nino, lo artigliava, lo trasformava nell’ombra di se stesso, veniva sedata con i farmaci”. E anche un tumore. E il tentativo del figlio di ricostruire con lui qualcosa di impossibile. Nei suoi ultimi capitoli il libro diventa una confessione disperata, una intrusione in un dolore così privato che non si vorrebbe mai entrarci, ma anche di speranza. E’ un libro questo che riguarda tutti noi che siamo padri, noi cresciuti con una manciata di canzoni rock e un padre che le odiava. Perché, in fondo, siamo tutti uguali: “Una ferita spezza la mia infanzia felice e la allontana da un’adolescenza smarrita, come un pallone spinto al largo in mare da un vento improvviso. Da un padre amoroso a un padre distante. Da un padre che amava giocare con suo figlio, a un padre incapace di accogliere il ragazzo che aveva preso a premere sotto le fattezze del bambino e che cercava un suo posto nel mondo, orfano di una guida“.

“Sono libero, papà. O forse, no”.