Verrebbe da chiedersi, talvolta, come sia possibile che alcuni personaggi della storia della letteratura, nonostante le loro controverse gesta, abbiano esercitato su di noi un tale fascino da essere consegnati eternamente alla memoria collettiva. Iracondi e meschini figuri, guidati dalla sete di vendetta e dall’arroganza, disposti a contravvenire ad ogni regola, a sfidare la sorte e macchiarsi persino di sacrilegio, pur di soddisfare le loro egoistiche brame. Girovaghi e sradicati come anime senza patria, tormentati da un rimorso che minaccia di sopraffarli ad ogni passo, eppure così profondamente e disperatamente umani da meritarsi, se non la nostra comprensione, almeno un sincero fremito di empatia, di compassione.



È il caso di due protagonisti, entrambi esperti uomini di mare, concepiti a cinquant’anni di distanza l’uno dall’altro. Sì, perché l’uomo di cui Samuel Taylor Coleridge narra le sofferenze in La ballata del vecchio marinaio (1798) è straordinariamente vicino al celebre capitano Achab attorno al quale ruota il monumentale romanzo di Herman Melville Moby Dick (1851). La loro connessione, oltretutto – che sia frutto di un citazionismo voluto e sistematico o prodotto quasi inconscio di quel meccanismo culturale che il compianto Giovanni Nencioni amava definire “agnizione di lettura” – trascende la semplice caratterizzazione dei personaggi, e si dipana per l’intera lunghezza dei rispettivi e speculari intrecci narrativi. Al termine dei quali, di fronte ad un esito opposto, si riafferma un’unica, ineludibile verità.



Limitandosi ad un livello di lettura piuttosto preliminare, le due opere sembrano focalizzarsi sulla titanica lotta tra uomo e natura: la nave del marinaio di Coleridge intraprende rotte anguste e impraticabili, funestate da tempeste e ghiacci perenni. In uno dei momenti di massima disperazione, tuttavia, un enorme albatros, considerato segno di buon auspicio dalle credenze di ambito marinaresco, si mostra all’incredula ciurma, che decide di prendersene cura. Almeno fino a quando il vecchio, con inaudita e inspiegabile ferocia, non decide di sopprimerlo.

Il cacciatore di balene, dal canto suo, insegue ossessivamente quel gigantesco prodigio dal fascino misterioso preferendolo ad ogni altro genere di cetaceo. Non si tratta solo di una sfida personale, di un regolamento di conti (Achab aveva perso una gamba proprio in uno degli scontri con Moby Dick) ma anche di una sfida proibitiva e ineluttabile che egli lancia a sé stesso. L’albatros e la balena, in realtà, simboleggiano qualcosa di più radicale e sconvolgente, contemporaneamente manifestazioni del divino e della nostra inadeguatezza a perseguirlo, volti dei fantasmi passati e presenti che pungolano e inchiodano i nostri sensi smarriti. Entrambi lucenti nella loro indecifrabile tonalità di bianco, legati ad un’idea di purezza e di maestosità che fa da contraltare allo squallore esistenziale dei loro aguzzini. Entrambi materializzazione di forze interiori incontrollabili e desideri arcani, proibiti: la loro presenza non è necessaria solo per conferire ai due uomini il piacere della cattura, ma soprattutto per scoprire le tremende e magnetiche conseguenze dell’ignoto, del peccaminoso, dell’umano che rifiuta il suo limite.



E proprio dalle conseguenze di un peccato imperdonabile sono costretti a fuggire i due vecchi lupi di mare: quello tratteggiato da Coleridge dall’uccisione del sacro e prezioso albatros, che con la sua ineguagliabile apertura alare rimanda alla posa di Cristo sulla croce, anch’Egli innocente vittima di una furia inconsulta e destabilizzata (“Ohimè! – scrive il poeta inglese – che sguardi terribili mi gettavano giovani e vecchi! In luogo di croce, mi fu appeso al collo l’Albatro che avevo ucciso”); l’altro, quello di Melville, da un vuoto esistenziale che lo consuma ferocemente, e che lo spinge a lanciarsi con frenesia sempre crescente alla volta di quel miracolo di bellezza di cui, come un frutto dell’Eden, vorrebbe acquisire l’assoluta conoscenza a costo di sacrificare e dannare la propria vita (“Essa è il simbolo più significativo di cose spirituali, il velo stesso, anzi, della Divinità Cristiana, e pure è insieme la causa intensificante nelle cose che più atterriscono l’uomo!”).

È al bivio redenzione-perdizione, volontà di potenza-sgomento d’impotenza, perdono-sprofondo nell’abisso che le due storie ci conducono. Due itinerari di purificazione e di autodistruzione che non possiamo esimerci dal compiere, seguendo le loro tracce o meno, insieme con i loro protagonisti. Due ascese e due cadute in cui umano e divino si scrutano con ardente impazienza di mescolarsi e divenire indistinguibili. Non è un caso, del resto, se La ballata del vecchio marinaio catturò l’attenzione del grande Gustave Doré, che ne illustrò la storia in maniera simile a quanto fatto per la Commedia dantesca. Due percorsi di lettura e di esperienza tangenti, in definitiva, che ci lasciano in dote un finale aperto.

Saremo come il vecchio marinaio, affranto dalla morte dei suoi compagni in seguito alle peripezie scaturite dal suo gesto, scheletrico e solitario, eppure ancora in cerca di un ascoltatore cui narrare i propri trascorsi per alleviare l’angoscia, del dono della salvezza che l’essere rimasto in vita gli ha concesso di sognare? O, invece, saremo come Achab, sprofondato insieme alla balena sul fondale della propria disperazione, ostinato e impunito prigioniero di un indicibile dolore, naufrago degli spettri che gli affollavano il cuore?