Dice Massimo Recalcati, parlando dell’opera di Giorgio Morandi, nel suo Il mistero delle cose: “non è l’immagine a ricoprire il reale irrappresentabile – come il fenomeno ricoprirebbe il noumeno o come in psicanalisi il feticcio ricoprirebbe l’orrore della castrazione – ma è l’immagine che addita il reale evocandolo come mistero indecifrabile”. E ancora: “Il ‘rispetto’ verso il reale come impossibile, inesprimibile, irrappresentabile definisce un atteggiamento che sa accogliere l’evento della vita e della morte senza rigettarne l’enigma fondamentale… L’assoluto è custodito, circoscritto, preservato nella figura fragile dell’oggetto che esce lenta dallo sfondo monocromo. Solo la fedeltà estrema alla sua presenza consente l’emergere dell’Altra Cosa, dell’irrappresentabile”.
Le ventiquattro poesie che compongono American Dreams, di Massimo Morasso, recentemente pubblicato da Internopoesia, sono costruite su una sorta di gioco mimetico attraverso cui l’autore, come nel gioco infantile più vecchio del mondo, orchestra ciascuna poesia. Il primo verso di tutte le poesie comincia così: Facciamo che io ero. E questi io che lui vuole essere, o finge di essere, sono volta per volta Francis S. Coppola, o Hunter Thompson, o Sacco&Vanzetti, o Marilyn Monroe, o il primo caduto sulla spiaggia normanna.
Il poeta, insomma, come un bambino, gioca a fare un altro. La sua voce diventa la voce di altri che, attraverso le loro parole e i loro ricordi, disegnano lo stato presente dei costumi degli americani, come recita il sottotitolo. Ma questo libro fa di più. Io l’ho letto con la certezza di trovarmi dentro quella che Recalcati definisce la poetica morandiana, cioè una poetica che “custodisce il mistero dell’oggetto come la ‘venuta’ dell’Altro: oggetti che popolano il traffico comune dei gesti e degli usi e che appartengono al circuito abituale del mondo subiscono un processo di trasfigurazione facendosi apparizioni della presenza in quanto presenza assoluta. È il sentimento religioso di essere confrontati con l’evento misterioso del mondo”.
Nella sua raccolta il poeta genovese, raccontando i luoghi del sogno americano, ha il potere di sottrarre le cose alla distrazione con cui noi le guardiamo solitamente: i luoghi di queste poesie si fanno avanti con lo sguardo e la parola; così come avviene per la voce di coloro che in quei testi dicono io. E ci fanno passare dentro un sacco di altri io, parlano dal loro tempo, ma sono nell’istante in cui tutti gli altri istanti convergono, nello spazio in cui tutti gli altri spazi sono convocati.
Ecco, l’importanza di questa poesia sta proprio nel fatto che la sua vocazione narrativa diventa convocazione: chiamati insieme sono i personaggi, i luoghi, i destini e il lettore, ma tutti quanti come chiamati davanti a una presenza che, essendo qui e ora, istante puntuale e particolare che rigenera il mondo, appare come il punto misterioso dal quale ciascuno è attratto e dal quale ciascuno è originato.
I personaggi non hanno voce seduttiva, non ci sono io che parlano dal loro specchio come narcisi; né osano o ricostruiscono una lettura storica che sia oltremodo originale: ci appaiono nella loro nudità, ciascuno quasi vittima di un comune destino di inadeguatezza e di ambiguità che pare essere la cifra della vita. In queste poesie non si assiste a una narrazione sociologica che intenda rileggere criticamente l’americanizzazione del mondo, piuttosto siamo immersi come in quadri in movimento nei quali avviene una sorta di trasposizione fenomenologica che si avvale di uno sguardo che si mimetizza, anch’esso a volte ambiguo, che ha però consapevolezza estrema e disincantata dell’oscuro che ci stringe e, insieme, dell’unica legge che ci è consentito di inseguire: cercare di essere, rompendomi la testa intorno al mio dilemma, inappagato, ribelle a tutto e a tutti, anche a me stesso, essendo insieme Zorro, Malcom X e Howard Hughes e tutti gli altri, e tutte le altre cose, insieme convocati.
Le ventiquattro poesie e gli io che parlano in ciascuna di esse, non sono uno spettacolare caleidoscopio grazie al quale stare come alla finestra davanti al mondo, ma piuttosto cuori, sangue, anime attraverso le quali noi siamo gettati dentro il mondo. E sono loro, il loro ritmo, il loro respiro che leggono, che percorrono noi, e non il contrario.
Ci sarebbe allora da aggiungere molto altro sul linguaggio, sul ritmo del verso di queste poesie. Ma credo sia sufficiente dire che essi sono così proprio perché devono tenersi dentro tutta questa trepidazione, questo concerto di voci e di cose che in altro modo non sarebbero contenuti. Dunque sono riusciti e necessari.
Si potrebbero anche fare alcune osservazioni su quanto di quello e di questo, di inglesi e americani e anche non, ci sia dentro queste poesie. Ma lo lascio ad altri. Io, per me – copiando Montale – ne ho avuto in dono la sorpresa e la forza. Di cui ringrazio il poeta. Che, tra le altre cose, sta anche terminando la pubblicazione di un volume in cui vengono raccolti gli interventi di un convegno realizzato alla luce di un manifesto da lui scritto, e firmato da altri 44 poeti italiani, sulla necessità che la poesia torni a percorrere quella che lì viene chiamata la via anagogica e che costituisce oggi una notevole provocazione nel mondo della poesia italiana contemporanea. Anche di questo, certamente, occorrerà riparlare.